Roma, 6 giugno 2018. L’odore dell’erba e il garrito dei gabbiani accompagnano lo sguardo che, se di giorno si lascia sedurre dai cumuli di frammenti colorati, di notte – complice l’illuminazione spettacolare – inquadra un’immagine infuocata. Però è solo dall’alto, proprio come le linee di Nazca, che il disegno si ricompone. I blocchi diventano grandi lettere che, accostate tra loro, compongono una scritta inequivocabile: help. Per Maria Cristina Finucci (Lucca 1956, vive e lavora a Roma), architetta di formazione, l’arte è il mezzo più consono per veicolare messaggi sociali incentrati, in particolare, su ecologia e ambiente. Certamente, poi, la scelta di realizzare (con il sostegno della Fondazione Bracco) la grande installazione Help the Ocean nell’area della basilica Giulia, all’interno del Parco Archeologico del Colosseo a Roma (visitabile fino al 29 luglio), seconda opera della serie archeologica – la prima opera, nel 2016-17, era stata Help l’età della plastica nell’isola di Mozia – ha un valore che non è solo fortemente simbolico. Una monumentale opera partecipativa che dialoga con le antiche vestigia annullando le distanze tra passato e presente, ma ponendo inevitabilmente domande sul futuro. «Cosa troveranno gli archeologi tra mille anni?», si chiede la fondatrice del Garbage Patch State (formalizzato nel 2013, presso la sede dell’Unesco a Parigi, piantando la bandiera e pronunciando il discorso d’insediamento del nuovo stato), nell’immaginare l’anomala scoperta dell’archeologo-extraterrestre. «È un po’ frastornato perché non ha trovato la solita discarica con tutti i rifiuti mescolati – si sa che dalle discariche si prendono le maggiori informazioni sulla nostra civiltà – ma dei tappi di plastica uniti tra loro da un ricamo. Strutture che sono gabbioni di rete metallica, messi a disposizione dal Gruppo Maccaferri, che contengono circa sei milioni di tappi di plastica colorata, che hanno le stesse dimensioni di quelle romane di pietra. Però, come è successo a Mozia, quando l’archeologo del futuro va via con l’astronave vede in lontananza che – nell’era della plastica – l’umanità si era organizzata per lanciare un grido d’allarme».

Per l’artista le immagini più ricorrenti proposte dai mass media, come bottiglie di plastica che galleggiano e pesci morti, che determinano una sorta di assuefazione, anestetizzando il problema, non giovano al coinvolgimento e alla sensibilizzazione del grande pubblico nei confronti di quest’emergenza che investe il futuro di tutti. L’immediatezza può arrivare dall’arte, soprattutto quando è intesa come azione di resistenza. Il suo progetto Wasteland ha preso forma in modi diversi dal 2013 ad oggi. Dopo l’installazione all’Unesco sono seguite varie tappe, ognuna caratterizzata dalla sua unicità: Padiglione del Garbage Patch State a Cà Foscari per la 55. Biennale d’Arte di Venezia (2013), Istituto Europeo del Design, evento collaterale di Arco, Madrid (2014), Onu, New York (2014), Maxxi, Roma con la prima Ambasciata del Garbage Patch State (2014), Fondazione Bracco per EXPO 2015, Milano (2015), Bluemed Conference, Venezia (2015), Conferenza sul clima COP 21, Parigi (2015) e Mozia (2016).

«Le installazioni sono dei pixel nel quadro generale del Garbage Patch State», prosegue Finucci spiegando il motivo che l’ha spinta ad occuparsi del problema dell’inquinamento – «che è prima di tutto politico» – causato dall’invadente presenza della plastica nel mare. «Se la plastica non si disgregasse vedremmo il mare coperto da residui, ma depositandosi sul fondo per via delle correnti, la plastica diventa invisibile. La difficoltà sta anche nel far conoscere un problema che non si vede. Sono anni che la comunità scientifica ha lanciato l’allarme, ma con parole inadatte a coinvolgere il grande pubblico». È concepito come evoluzione di Help the Ocean il prossimo progetto, a cui l’artista sta lavorando da due anni, per il Moscow Museum of Modern Art: «Sarà un’installazione diversa, dove metterò in rilievo la plastica come risorsa e non come rifiuto, come in parte avveniva anche qui, dove dietro ad ogni tappo c’è una persona che l’ha messo da parte e portato all’Università di Roma Tre dove è avvenuta la raccolta, in parte proveniente anche dalla Caritas. La partecipazione collettiva è una ricchezza. L’insieme fa la forza».