A quasi un anno dalla tragedia, è ancora senza nome la maggioranza delle 366 vittime del naufragio avvenuto a Lampedusa il 3 ottobre 2013 e di quello che si è verificato sempre al largo dell’isola siciliana pochi giorni dopo, l’11 ottobre, in cui hanno perso la vita altri 21 migranti. Le procedure per arrivare alla loro identificazione potrebbero però avere proprio adesso un’accelerazione. Sciolti definitivamente tutti i nodi burocratici, il compito di dare un nome alle vittime è stato affidato, come previsto dalla legge 203/2013, all’Ufficio del Commissario di governo per le persone scomparse diretto dal prefetto Vittorio Piscitelli, che nella scorsa primavera ha dato avvio ai lavori. Finora 184 salme del naufragio del 3 ottobre sono già state identificate insieme a 8 della seconda tragedia. Nei prossimi giorni, in occasione del primo anniversario di quella che è stata definita come la più grave tragedia del Mediterraneo, sono attesi in Italia i superstiti ma soprattutto i familiari delle vittime con i quali si potrà avviare la fase conclusiva delle procedure di identificazione. Che riguarda ancora 195 corpi, 182 dei quali relativi al primo naufragio.
Il primo ottobre familiari e superstiti si recheranno in Vaticano per un incontro privato con Papa Francesco per poi recarsi a Lampedusa per le celebrazioni. Subito dopo questi due appuntamenti, però, i familiari sono attesi negli uffici del Commissario. «Rintracciarli è stata un’operazione complessa alla quale stiamo lavorando da primavera», spiegano i funzionari. «Ci siamo rivolti anche a organizzazioni internazionali. Molti di loro si trovano in Eritrea dove è difficile contattarli, altri vivono invece i Paesi europei, Norvegia, Svezia, e Germania. Siamo in attesa di conferma del numero di persone che saranno in condizione di partecipare ai colloqui».
Nei giorni successivi al naufragio le salme sono state divise tra vari cimiteri della Sicilia. La maggior parte parte, 80, si trovano nel cimitero Piano Gatta di Agrigento e altrettante in quello di Caltanissetta. Le altre in vari comuni delle provincie di Agrigento, Messina, Caltanissetta, Palermo, Catania e Trapani, tra i quali Castrofilippo, Porto Empedocle, Mazzarino, Gela, Menfi, Bivona, Canicattì, Montevago, Sambuca di Sicilia, Santo Stefano Quisquina e riconoscibili fino a oggi con un numero. A tutte, prima della sepoltura, sono stati prelevati campioni biologici utili per l’esame del Dna. Inoltre sono state fotografate. Dati che adesso – grazie a un protocollo di intesa fra il Commissario per le persone scomparse, l’Istituto di Medicina legale dell’università di Milano e il Dipartimento per le Libertà civili e l’immigrazione del ministero dell’Interno – potranno essere confrontati con quelli ante-mortem messi a disposizione dai familiari durante i colloqui che avranno con i medici legali: documenti di identità con fotografia, filmati della persona contrassegni come cicatrici o tatuaggi, documentazione medica, radiografie, certificazioni, notizie relative a malattie avute. Ma anche effetti personali. Se tutto questo non fosse disponibile, per identificare un corpo si effettuerà un tampone orale su un familiare in linea retta (genitore o figlio) in modo da poterlo poi comparare con il Dna delle salme. I colloqui con i medici legali si svolgeranno infine con l’ausilio di operatori di polizia scientifica e l’assistenza di interpreti e mediatori culturali. «Si tratta di un lavoro enorme – concludono all’ufficio del Commissario – E’ la prima volta che si svolge e non è escluso che in futuro si possa replicare, perché i migranti morti non sono purtroppo solo quelli di Lampedusa. Dare un nome a queste salme non è solo un dovere giuridico, ma anche morale».