In un panorama musicale mediorientale e arabo che ha via via acquisito e declinato rock, hip hop, elettronica, la scena alternativa di Beirut si è sempre distinta per una particolare qualità, per una speciale finezza. Molti fattori, non tutti augurabili, hanno contribuito a nutrire la sensibilità di generazioni che nella capitale libanese hanno cercato forme di espressione non convenzionali: ovviamente lo storico cosmopolitismo della città, la sua confidenza con l’occidente e l’Europa, e più specificamente la consuetudine di antica data col mondo rock e pop, testimoniata da un ricco tessuto di gruppi giovanili negli anni della dolce vita libanese che precedettero gli orrori della guerra civile.

MA PURTROPPO anche l’elaborazione dei traumi patiti dal paese, appunto la guerra civile, l’invasione israeliana, fino ai devastanti bombardamenti israeliani su Beirut del 2006; e, fra i traumi, per molti anche l’esperienza dell’esilio – un dramma che ha avuto però il risvolto di un’ulteriore apertura al mondo.
Rimasto praticamente sconosciuto fuori da Beirut, un momento importante della vicenda della creatività e dell’innovazione nella musica libanese viene riportato alla luce con una sua recente uscita per Habibi Funk, etichetta tedesca specializzata, con una decina di titoli in catalogo, nel vintage arabo: si tratta di Mouasalat Ila Jacad El Ard del chitarrista e cantante Issam Hajali, un album molto significativo tanto per il singolare pregio della musica quanto per il contesto e l’epoca in cui è nato.
Il nome di Issam Hajali è noto fra gli appassionati di modernariato musicale arabo per via di Ferkat Al Ard, una band costituitasi nella capitale libanese negli anni della guerra civile, il cui lp Oghneya è oggetto di culto fra i collezionisti: l’uomo con la barba che in copertina cammina per una strada di Beirut è Hajali. Oggi Hajali è un signore di qualcosa di più di sessant’anni che tiene un negozietto di gioielli, per lo più provenienti dal Nepal – una meta privilegiata dei suoi viaggi – in una via commerciale di Beirut. Alla metà degli anni settanta faceva parte di una band, i Rainbow Bridge, in cui prima aveva suonato la batteria, per poi passare alla chitarra, che aveva cominciato ad imparare da autodidatta: un gruppo che guarda al pop-rock occidentale, ai Beatles, ai Cream, ai Jethro Tull, e che comincia ad avere successo.
Ma alla metà degli anni settanta in Libano scoppia la guerra civile. Già nella prima fase del conflitto il batterista dei Rainbow Bridge viene ucciso da un cecchino, e trova la morte anche l’amico da cui Issam ha avuto la sua prima chitarra. Dopo l’intervento in Libano della Siria, nel ’76 Issam, che milita nell’estrema sinistra libanese, si sente nel mirino: riesce a prendere il largo – letteralmente, su una nave portacontainer – e, passando da Cipro, a raggiungere Parigi, dove rimane per un anno. Nella capitale francese suona nella metropolitana e fatica a mettere insieme il pranzo con la cena.

NEL ’77, giusto prima di lasciare Parigi per riguadagnare Beirut, riesce però a organizzare una piccola seduta di incisione, con un gruppo raccogliticcio, ma che conta delle personalità interessanti: ad una seconda chitarra c’è Roger Farhr, un altro giovane libanese, che Hajali ha conosciuto a Parigi; al santur c’è un persiano, Mahmoud Tabrizi Zadeh; la formazione è completata da piano, tastiere, basso, batteria e percussioni, con un algerino e alcuni musicisti francesi. Fahr lavorerà poi con la grande star libanese Fairouz e si trasferirà negli Stati Uniti, mentre Tabrizi Zadeh collaborerà invece alla colonna sonora dell’Ultima tentazione di Cristo realizzata da Peter Gabriel per il film di Scorsese. Le musiche sono tutte di Issam Hajali, il quale come testi – tranne che in un brano, dove le parole sono sue – sceglie versi presi da poesie di Samih Al Kasim, poeta e giornalista palestinese, comunista, impegnato con il nazionalismo e la resistenza palestinese.

IL GIORNO dopo la registrazione dell’album, Issam Hajali torna in patria con il nastro. Ma a Beirut la situazione è quella che è, e così riesce solo a far circolare il disco facendone personalmente una per una delle copie su cassetta; in tutto riesce a venderne forse un centinaio. Però la registrazione viene ascoltata e apprezzata per esempio da Ziad Rahbani, figlio di Fairouz e musicista con una grossa reputazione – Rahbani contribuirà poi a diverse uscite di Ferkat Al Ard, la band che si forma quando Hajali rientra in Libano.
A Beirut Hajali era infatuato del pop-rock occidentale, ma a Parigi, lontano dal suo Paese, angosciato dalla feroce guerra civile che sta dilaniando il Libano, sente il richiamo per la musica araba, e crea un pop-folk che sta tra Medio oriente e suggestioni internazionali. Con la sua vena malinconica, il suo magnifico gusto melodico, la voce e il modo di porgere fascinosi di Hajali, il candore giovanile, il profumo di speranza e utopia degli accenti pop, Mouasalat Ila Jacad El Ard è un album sorprendente e commovente.
Da lì prederà le mosse Ferkat Al Ard, che, attivo con testi politicamente impegnati nell’ambito della sinistra libanese durante la guerra civile, sarà una delle esperienze che contribuiranno a dare alla scena musicale di Beirut quel carattere innovativo e quell’originalità nel mondo arabo che ha mantenuto fino ad oggi.