Parigi, gennaio 1871. Fra le strade febbrili di rivolta circola una storiella. Nel settembre precedente Napoleone III era stato sconfitto a Sedan dalla Prussia; l’impero era crollato. Percorsa dal vento della rivoluzione, dal tambureggiante appello alla Comune, la neonata fragile Repubblica appare provata dall’assedio dell’esercito di Bismarck, dall’incessante bombardamento, dalla fame. Il buonumore non manca: se il popolo di Parigi avesse un pollo – si dice pensando all’abituale spartizione delle ricchezze – il clero si sarebbe preso le ali, la burocrazia le cosce, l’esercito il petto; al popolo i magri avanzi. Riflessa sul passato di sudditanza, anche la fantasia lasciava a bocca asciutta. Più appagante convincersi della necessità della lotta: la Comune era quel pollo di cui finalmente il popolo avrebbe goduto per sé e diviso equamente.

Miraggi a parte, alla radice del termine, la Comune implica questa pratica di condivisione. È quanto vien fuori dalla lettura della ponderosa ricerca di Innocenzo Cervelli su Le origini della Comune di Parigi. Una cronaca (31 ottobre 1870-18 marzo 1871) edito da Viella (pp. 502, euro 49). La temporalità scelta dall’autore non è casuale né paradossale, perché raccontare l’esperienza insurrezionale del popolo di Parigi, arrestandosi alla soglia della presa del potere e del governo «comunalista» sembra esprimere la volontà di sottrarre la storia della Comune al capriccio dell’evento, con cui si legge oramai ogni fatto storico.

La Comune di Parigi, la lotta per averla è anche la progressiva emersione del comunalismo come unica alternativa, prima al governo di Difesa nazionale emerso dalla dissoluzione dell’impero, poi al tentativo di repubblica pasticciona e autoritaria di Thiers. Cervelli costruisce la sua narrazione in quattro momenti, ancorati solidamente a giornate di svolta: il 31 ottobre con il tentativo insurrezionalista promosso da tutti i partiti nel segno del rifiuto di ogni armistizio, della leva di massa e per la Comune. La mancanza di un centro organizzativo, la scarsa preparazione militare degli insorti, la modesta partecipazione popolare, tutto concorse a far risolvere la giornata in un fallimento, costringendo l’intero movimento rivoluzionario a battere in ritirata. Ma la sinistra ancora imparava dai propri sbagli e la sconfitta convinse le formazioni rivoluzionarie della necessità di un’organizzazione più solida e di una prospettiva di governo non più legata al retaggio centralistico giacobino.

È ora che comincia ad emergere l’idea di municipalismo, espressione di una democrazia partecipata e federativa. Cervelli esordisce con Gustave Lefrançais, internazionalista e testimone diretto di quei giorni, secondo cui il «comunalismo» forniva ai rivoluzionari il diritto di determinare la propria autonomia, l’interesse politico e sociale di ognuno evidenziando i limiti del suffragio universale. La partecipazione diretta e plurale di uomini e donne alle nuove istituzioni avrebbe garantito la virtù del comando politico. La seconda data è il 27 dicembre, giorno in cui cominciano a piovere su Parigi le bombe prussiane. Le pagine di Cervelli brulicano di vita, sono fertili di nomi, volti, azioni e gesti che restituiscono pienamente la coralità dell’azione rivoluzionaria.

È il fermento della militanza di Blanqui e della venerazione che circonda Garibaldi, di Vallès e Pyat, di Louise Michel e tante e tanti altri senza nome, sconosciuti artigiani, cuochi, rilegatori, artisti che pur fra molte cadute, errori, contraddizioni si preparavano con entusiasmo e passione politica ad assaltare il cielo; gli stessi inconnus trucidati al Muro dei federati. Sicché, martoriati dalle bombe, i parigini stanchi delle continue divisioni, decidono di adottare una strategia comune, sottraendosi al perenne ricatto che vuole la difesa integerrima dell’azione rivoluzionaria come causa immediata della vittoria della reazione. La Comune era già nella resistenza e nella speranza di una vita migliore. Si arriva così alla nuova giornata insurrezionale del 22 gennaio, ancora una volta fallimentare perché tardiva e prematura allo stesso tempo. È il momento della vergogna dell’armistizio (28 gennaio) con il nemico prussiano e la decisione di appellarsi alle urne per nominare un governo legittimo, così come preteso da Bismarck.

La breve campagna elettorale e i risultati del voto evidenziarono la spaccatura che segnava la Francia, divisa fra il mondo delle campagne dominate dal legittimismo e le città repubblicane, con Parigi punta avanzata di un più vasto fronte di democrazia radicale, ancora tuttavia minoritario. Era un monde nouveau quello che sembrava nascere, come scrissero nel manifesto elettorale le forze federate dei socialisti rivoluzionari nati dalla fusione del Comitato dei 20, degli internazionalisti e delle società operaie con la convinzione di incarnare il «potere rivoluzionario». L’immenso partito dei déshérités rivendicava l’ingresso nella dialettica politica reclamando la fine dell’oligarchia governativa e del feudalesimo padronale.

In una parola trasformare l’uguaglianza politica in uguaglianza sociale che viene assunto quale compito dell’intero movimento rivoluzionario. Per far fronte all’offensiva del governo nazionale il movimento parigino inevitabilmente decide di militarizzarsi, si lega alla Guardia nazionale e si dà una nuova struttura provando ad abbandonare le vecchie divisioni e trovando motivo di unione nella pratica rivoluzionaria. È in questo contesto che il 18 marzo, un vile atto di protervia del governo può trasformarsi in sollevazione e la rivoluzione attuarsi: «Place au peuple! Place à la Commune».