Sulle fotografie di David Campany è stato pubblicato in Italia, edito da Einaudi (pp. 272, euro 38, traduzione di Susanna Bourlot). Il titolo, dice l’autore, glielo ha indicato Susan Sontag. Un suggerimento augurale: riuscire in futuro a scrivere una variante del suo molto citato – e studiato da generazioni – Sulla fotografia, testo giudicato dall’autore un’analisi troppo vincolata all’aspetto sociale intrinseco al fenomeno. «Forse un giorno sarai tu a scrivere un libro intitolato Sulle fotografie».

Sono passati più di quarant’anni dalla raccolta dei sei saggi di Sontag, inizialmente pubblicati su New Yorker of Books (tra il 1973 e il 1977) e David Campany non è più un giovane studente che chiede di essere ricevuto dalla saggista più nota del Novecento. Il suo nome ricorre ovunque, è riconosciuto da coloro che frequentano, a vario titolo, la fotografia contemporanea nell’implicita speranza di essere accolti all’interno del suo discorso. Nell’emanazione delle proprie identità sociali, possiamo incontrare un frammento di Campany anche su Instagram, ed è là che troviamo le due definizioni assegnate da Campany al proprio ruolo nel mondo: curator/writer.

DOPO LA DEFINIZIONE curator/writer, Campany aggiunge il contenuto da associare alla pagina, sulla stessa piattaforma che ospita dilettanti, poeti, scrittori, robottini aspirapolvere, spettatori, artisti e frullatori dal design accattivante, tutti – nello spirito democratico di un’equivalenza di valori – registratori del tempo in cui si vive: Things seen and work done. No selfies, conclude. Così sul profilo Instagram di Campany troviamo 1890 post, 61,4mila follower e, come ogni persona influente che si rispetti, un numero relativamente esiguo di profili seguiti.
Nel risvolto di copertina del libro Einaudi, invece, David Campany si autodefinisce anche un artista; niente di male, anzi, il ruolo più difficile da concedere a un fotografo (specificatamente in Italia) rientra ormai nella nuova consuetudine generazionale di chi ha scoperto che essere un artista non significa essere un bohémien noioso e anche un po’ ignorante, come era l’artista attraversato e cristallizzato dalla generazione dei critici anni Settanta e Ottanta: «Gli artisti spesso sono noiosi e pieni di sé (ndr, frequentarli) significa farsi vomitare addosso una volta e due e tre, tutto il loro mondo conscio e inconscio» (Lea Vergine).

NEGLI ANNI ZERO si è configurata questa nuova autorialità in comodato d’uso: il collezionista di immagini (per citare l’artista americano Walker Evans).
E così, l’assemblatore di opere – di artisti e di sconosciuti – è artista, tanto quanto l’artista «non è più noioso, meglio se ignorante»; l’artista – dal canto suo – è qualche volta critico e qualche volta desidera riconfermarsi nella sua visione d’insieme dichiarandosi curatore (si ricordino le due esperienze di Thomas Demand e Luc Tuymans presso la Fondazione Prada).

ECCO DUNQUE che il curatore-attore, il curatore-artista, raccoglie dal lavoro di artisti o di sconosciuti, dalle cartoline o dalle pubblicità (alla maniera modernista), e asseconda un tema, un’idea, un movimento, «un flusso di mondo irrequieto»; traduce, semplifica per lo spettatore/lettore, qualche volta insiste sulla presenza del tempo sociologico (in fondo non diverso dall’analisi del fenomeno di Sontag) e ci dona una lettura di singole immagini in tempi storici diversi, inserendoli nel suo mosaico, prescindendo dal vomito dell’artista (di cui infatti omette il percorso, la storia).

COSÌ CI RICORDA quel che scriveva Burgin: Hai avuto questa esperienza sognando ad occhi aperti? Sai in anticipo dove dovrebbe finire la fantasia, ma il costo di rimandare quell’epilogo – che, dopotutto, è ciò che fa la narrativa – si trasforma in questo: raramente riesci ad arrivare dove volevi.
Nel perseguire la sempreverde scomparsa dell’autore, non solo in senso di stile (come già ipotizzava Walker Evans) ma di riappropriazione, non ci resta che tentare un dialogo alla Campany nel nome dell’arte foss’anche nell’ipotesi di una sconfitta.