«Parteciperò alla marcia di oggi in quanto ritengo che le linee portanti della Riforma dei beni culturali, lanciata in due tempi dal governo, abbiano delle profonde cause di negatività e non siano adatte a garantire la maggior tutela possibile del patrimonio culturale del paese».

A parlare è Pier Giovanni Guzzo, militante di lunga data nel campo dell’archeologia (dal 1986 ha successivamente retto la soprintendenza della Puglia, dell’Emilia-Romagna e di Pompei). La manifestazione, indetta dal movimento Emergenza Cultura che dà anche il nome all’evento, si propone di salvaguardare l’articolo 9 della Costituzione, messo a repentaglio – secondo i promotori dell’iniziativa – dalle politiche culturali dell’attuale governo. Al manifesto, Guzzo spiega le ragioni della sua adesione.

Quali sono gli aspetti della riforma Franceschini che reputa maggiormente suscettibili di critica?

Le criticità si possono dividere in due categorie: una è di metodo, l’altra è – per così dire – di tempi. Per quel che riguarda il metodo, bisogna considerare che il modello che si vuole addossare alla precedente organizzazione e gestione dei beni culturali è un modello statunitense, in cui i musei sono entità a sé stanti, che nulla hanno a che vedere col territorio. Negli Stati Uniti un tale modello ha senso perché quando nel XIX secolo si formarono importanti musei quali il Metropolitan, l’archeologia coincideva con la storia dell’arte classica, che ovviamente non esisteva in un territorio popolato dai pellerossa. Per riempire i musei si comprarono dunque reperti dai paesi in cui le civiltà classiche erano presenti. In Italia e in Grecia, dove invece continuano a emergere materiali antichi, i musei sono sempre stati strettamente connessi alla cura del territorio. Allo stesso modo, le scoperte del territorio finiscono nel museo. Il museo, infine, illustra la storia del territorio. Questo circolo virtuoso si è spezzato senza ragione. Le divisioni territoriali introdotte con la seconda fase della riforma hanno portato all’amputazione del collegamento fra alcune città antiche – tra le quali spiccano Pompei, Sibari e Roma – e le istituzioni territoriali di riferimento.

Cosa intende invece per criticità di tempi?

Non esiste azienda che nella volontà di ristrutturare la propria gestione, non compia – precedentemente all’applicazione del nuovo tipo di gestione, un’analisi dello status quo, in maniera tale da vedere qual è la differenza tra la realtà e ciò che si andrà conformando una volta messa a regime la riforma. Mi riferisco in particolare alle risorse finanziarie, ma soprattutto alle risorse professionali, ovvero le persone. Oggi come oggi, quest’applicazione repentina e in due puntate della riforma, ha condotto a situazioni abnormi. Al museo di Villa Giulia a Roma ci sono un’archeologa e poche decine di custodi. Come può un museo che deve conservare, tutelare, far conoscere e favorire la ricerca scientifica raggiungere i suoi obiettivi con un solo archeologo e alcuni custodi? Un altro esempio clamoroso lo vediamo in Calabria, dove lo stesso funzionario archeologo è responsabile di due musei, a Sibari e Vibo Valentia, che non si trovano esattamente uno accanto all’altro.

Nell’ambito della separazione tra tutela e valorizzazione, uno dei casi più contestati riguarda Taranto, dove la soprintendenza è stata soppressa a favore di Lecce, mentre il Marta (museo archeologico di Taranto, «ndr)», è stato promosso fra gli istituti autonomi, con un direttore equiparato al rango di soprintendente.

Il caso di Taranto è certamente emblematico perché, come ricorda Piero Massafra, a metà Ottocento fu lo stesso municipio a pagare per il completamento del museo. Un atto di responsabilità verso i cittadini, ai quali veniva riconosciuto il diritto a conoscere ciò che si era trovato nella loro città. Tuttavia, anche il Museo nazionale romano, il museo di Sibari e quello di Reggio Calabria sono stati penalizzati dalla riforma. Istituzioni nate per ospitare il frutto delle attività di scavo, si trovano ora sconnesse dal territorio senza d’altra parte poter supplire alle funzioni di tutela che competono invece alle soprintendenze.

Cosa si aspetta dalla manifestazione?

Mi auguro che l’espressione del dissenso assuma un volume tale che i fautori della riforma siano costretti a prenderne atto. Eventuali provvedimenti e modifiche, staranno poi alle loro coscienze e alle responsabilità nei confronti dei cittadini.