Ci sono libri che meriterebbero maggiore attenzione di quella che già non hanno raccolto, offrendoci il senso della complessità e della stratificazione dei processi storici senza per questo chiudersi nell’ermetismo o in un compiaciuto accademismo che si preclude il pubblico dei più. È il caso dell’ottimo studio licenziato da Marina Caffiero, dedicato alla Storia degli ebrei nell’Italia moderna. Dal Rinascimento alla Restaurazione (Carocci, pp. 254, euro 19) dove, come il titolo chiarisce da subito, viene ricostruito un segmento significativo della storia del nostro Paese, dal XVI secolo, con il trapianto dell’ebraismo iberico anche nella nostra Penisola, fino agli effetti di stabilizzazione e «normalizzazione» delle spinte innovative introdotte dalla lunga eco rivoluzionaria prima e napoleonica poi.

L’autrice insegna storia moderna all’Università La Sapienza di Roma e ha alle spalle una solida esperienza pubblicistica. La lettura delle sue pagine rivela non solo la competenza nella materia ma la capacità di farla oggetto di una revisione anche di taglio metodologico. Va detto che a concorrere, in questi ultimi due decenni, ad una sistematica innovazione nello studio della storia dell’ebraismo italiano, sono state anche e soprattutto le donne. Non citiamo nomi per non escludere nessuno ma rimane ferma l’impressione che vi sia quanto meno una sorta di implicita alleanza tra una sensibilità di genere, traslata poi negli studi e nella ricerca, e il modo in cui l’oggetto del proprio lavoro è stato integralmente riconsiderato. Entriamo quindi nel merito del lavoro medesimo.

L’insediamento ebraico in Italia vanta circa ventidue secoli di esistenza. Ha conosciuto profonde trasformazioni che, in età moderna, si sono riprodotte in vere e proprie cesure. La prima di esse si riconnette al ridisegno egemonico per parte spagnola che coinvolse il Mediterraneo, quando le espulsioni dalla Sicilia e dal Meridione d’Italia si incrociarono con la cacciata dei marrani e dei moriscos dalla Spagna e dal Portogallo, insieme alla loro dispersione, soprattutto, per quello che ci concerne, nel Settentrione d’Italia. Il secondo passaggio capitale è segnato dall’introduzione e dalla diffusione del ghetto come area d’obbligo residenziale per l’ebraismo peninsulare, fatto che implicò, per almeno tre quarti degli interessati, il vincolo di soggiornare in luoghi prestabiliti e, soprattutto, per più aspetti isolati rispetto all’ampia rete di interlocutori e relazioni che continuarono comunque a coltivare, sia pure con alterne difficoltà. Il terzo elemento, che sopravviene come esordio dell’età contemporanea, è la diffusione degli statuti emancipatori e, con essi, l’introduzione sistematica della cittadinanza, per gli appartenenti alle minoranze come per la maggioranza della popolazione.

Una segmentazione territoriale

Fin qui, per molti aspetti, nulla di troppo nuovo. Una tale periodizzazione ci restituisce un principio di unitarietà per quelle dinamiche, altrimenti tra di loro molto segmentate, che rimandano agli «ebraismi» italiani. Poiché la segmentazione territoriale, che andava a sovrapporsi alla stratificazione delle origini nella composizione delle singole comunità locali, contribuì fortemente ad alimentare abitudini, condotte e modi di pensare che solo successivamente sarebbero divenuti parte di un più generale mainstream ebraico, oggi meglio conosciuto come «tradizionalismo», parola dai contenuti molto incerti, che coniuga per l’appunto diversità ed eterogenità, tuttora permanenti. Su quali cose Caffiero ci offre uno sguardo inedito, o comunque nuovo?

A parte il vivace enciclopedismo del testo, che intreccia una miriade di dati, di persone, di eventi e di situazioni, ingenerando così una robusta trama, dove la differenza fa premio su qualsiasi tentativo di omologazione (che fosse interno o esterno alle comunità ebraiche), l’autrice ci guida, nella relazione tra dimensione locale e quadro generale, verso alcuni approdi metodologici, oltre che di contenuto, decisamente interessanti. Da un lato il libro si ispira ad una concezione della storia dove l’interconnessione e la globalità sono due poli imprescindibili. Nella traiettoria dell’ebraismo peninsulare sull’insediamento territoriale fa premio, in una sorta di reciproca influenza, la transregionalità, la costruzione di reti di scambi e relazioni, l’interazione permanente con l’ambiente circostante. In altre parole, si danno confini mobili, sia all’interno delle proprie comunità che rispetto alle società cristiane. L’identità ebraica, in tal senso, non è quindi il prodotto di una separatezza (voluta o subita) ma di un’integrazione e di un mutamento, persistenti ancorché problematici. Non è il caso di parlare di ibridazione o di meticciato ma senz’altro di forme di contaminazione.

La logica del network

Si attenua così il paradigma periodizzante, altrimenti falsamente esclusivista e onnicomprensivo, delle persecuzioni e dello statuto di vittima, che da sé, pur raccontando di significativi aspetti del passato, non ce ne restituisce l’intera trama. Mentre subentra la questione della mobilità, laddove essa è soprattutto logica di network. D’altro canto, in un denso passaggio del testo, Caffiero constata che «sono i rapporti, e non la separatezza, a creare le percezioni reciproche e i discorsi degli uni sugli altri, compresi quelli negativi e detrattori, in un gioco di specchi rivelatore di diversità come pure di meccanismi mentali simili». Non di meno, se questo discorso rimanda immediatamente alla società cristiana nelle sue molteplici diramazioni e nelle sue tante trasformazioni, l’altro lato sul quale il volume richiama l’attenzione del lettore è il rapporto con i poteri che si sono alternati nel governo di una penisola molto frastagliata, soggetta a ripetuti cambi di «padrinaggio».

Non basta, infatti, il riscontro della forza del potere temporale del papato per resocontare le dinamiche, sospese tra accondiscendenza, collusione ma anche estromissione e persecuzione, che si intrecciano in almeno tre secoli di storia. Entrano infatti in campo i due fondamentali capitali di cui gli ebraismi italiani sono andati dotandosi, con forme, modi, tempi e risultati differenziati, nel corso del tempo, tra le diverse comunità territoriali. Parliamo del capitale economico e di quello culturale. Entrambi rinviano sia ad una sfera materiale, molto concreta, diretta (nel primo caso, la capacità di condizionare certe scelte, laddove il denaro assume il valore di merce universale; nel secondo, la possibilità di costruirsi e preservare un’identità a sé, non depositaria dei soli valori della maggioranza dominante, evitando così che l’integrazione si trasformi in assimilazione nonché, infine, in scomparsa) ma anche simbolica, che si riproduce nel corso del tempo ed influenza la coscienza di sé degli stessi ebrei italiani.

È su quest’ultimo passaggio che, infatti, si apre una nuova stagione, quando, con l’emancipazione giuridica e la partecipazione politica al processo risorgimentale, gli ebrei diverrano soggetti attivi nella costruzione di una identità non solo più nazionale ma anche societaria. Processo, quest’ultimo, interrotto nel 1938. Siamo però in un ben altro quadro, a questo punto del discorso. Il testo di Marina Caffiero opera una valida sintesi di questo insieme di aspetti, operando una restituzione del discorso sull’ebraicità italiana che ne innerva le dinamiche dentro il farsi di un Paese, il nostro, dai confini certi ma dalla sovranità debole.