Belgio, seconda guerra mondiale. Un solitario areo americano sfreccia nell’azzurro, improvvisamente squarciato dai rossi bagliori del fuoco nemico. Sono troppi! Il velivolo perde di quota e si abbatte tra gli alberi. Il pilota (Steve Carell) scatta fuori dall’abitacolo, con i piedi in fiamme. Li vediamo sciogliersi: i piedi di una bambola. Di tutti i grandi autori della sua generazione -formata da una fascinazione profonda per il cinema fantastico- Robert Zemeckis è forse quello che più ha lavorato a livello molecolare sulla permeabilità tra il mondo reale e quello immaginario.

La qualità esistenzial/filosofica del fantastico dolorosamente esplorata da John Carpenter, in Zemeckis si arricchisce di un’ulteriore dimensione «alla lettera», tradotta in quella feroce volontà di sperimentazione tecnologica che dall’osmosi tra umani e cartoon di Chi ha incastrato Roger Rabbit?, ci ha portati alla sua ricerca frankensteiniana sulla motion capture e a un uso del digitale tra i più sofisticati del contemporaneo blockbuster hollywoodiano.

ANCHE il nuovo film del regista di The Walk, Benvenuti a Marwen, è un tour de force tecnologico, ancorato, ad alcuni dei temi profondi della sua filmografia – la solitudine, lo scollamento con il mondo, il potere dell’arte. Come The Walk, Benvenuti a Marwen ha le sue radici in un documentario molto apprezzato (Marwencol, 2010), ed è la storia di un artista.
Mark Hogankamp (Carell nel film) era un illustratore, miniaturista, specializzato in seconda guerra mondiale, che si manteneva aiutando nella cucina di un ristorante, quando venne assaltato da sei teppisti, in un bar di Kingston, a nord di New York. Lasciato per morto, dopo mesi di cure intensive riuscì a riprendersi, ma non recuperò mai completamente alcune facoltà cerebrali, tra cui la memoria e la capacità di disegnare.

Per dare sbocco alla sua vocazione e al suo trauma, fusi in un tutt’uno (che il film di Zemeckis visualizza in modo commovente), Hogankamp costruì nel suo giardino una città in miniatura -Marwen, villaggio immaginario nel Belgio della seconda guerra mondiale- e la popolò di bambole/personaggi che animava e fotografava amorevolmente. Come si apprende dal documentario e si vede anche nel film, oggi i suoi scatti sono esposti nelle gallerie d’arte – molti di essi, raccolti in un libro affascinante Welcome to Marwencol. Nella sceneggiatura di Zemeckis e Caroline Thompson (storica collaboratrice di Tim Burton), la vita nel villaggio di Marwen ruota intorno a un’azione sola, che si ripete in variazioni multiple – come la scena dell’assalto che Mark rivive continuamente dentro la sua testa.

Hoogie, il valoroso capitano dall’aviazione è inseguito/ assaltato da un plotone di nazisti che lo torturano con brutalità, ma viene sempre salvato in extremis dell’entrata in scena delle «donne di Marwen» – un gruppetto di voluttuose bambole pin up, armate fino ai denti, i cui personaggi sono ispirati a donne nella vita recente di Mark: Jules, la veterana con una gamba sola che lo aiutava nel rehab; Anna l’infermiera giunonica che arriva tutti i mesi e che nella sua fantasia diventa una guardia rossa; Carlala, la cuoca del ristorante dove lavora ogni tanto; Suzette, la star del suo porno preferito (interpretata dalla moglie di Zemeckis, Leslie); Roberta, commessa del negozio di miniature dove si serve e Nicol, la nuova vicina, con i capelli rosso fiamma per cui si prende una cotta.

Più ambiguo il ruolo di un’altra residente del villaggio, Deja Thoris (il nome viene da una principessa marziana di E.R.Burroughs) strega belga che vola come un fantasma nero, ha i capelli dello stesso colore delle pillole antidepressive che Mark ingoia a manciate, e un ascendente fortissimo sul nostro protagonista.

PER MEGLIO RENDERE la sovrapposizione tra l’azione nella realtà e quella nel mondo delle bambole (animate in una combinazione di motion capture, digitale e passo uno), Zemeckis crea una continuità anche spaziale tra la casa di Mark e il villaggio -un complesso gioco di scala -tra miniatura e dimensioni reali – che sfocia in scene molto commoventi. È spesso un urlo lancinante che annuncia la «ritirata» di Mark a Marwen. O il suo risveglio improvviso sul divano, quando anche il villaggio diventa insostenibile. La sua vita stregata da un disagio così profondo che raramente Mark si allontana da casa senza trascinarsi dietro la jeep su cui stanno Hoogie, le «girls», sempre armate. Parte del plot anche la sterminata collezione di scarpe da donna, accumulate pare prima dell’incidente.

Mark ama i tacchi a spillo e il tocco della biancheria femminile sulla sua pelle – la dimensione feticistica, fortemente sessualizzata che attraversa le sue foto, curatissime nelle pose, nella composizione dell’inquadrature e nell’uso della luce, è parte di ciò che rende interessante la sua arte. Un mistero il suo che deve aver affascinato Zemeckis, la cui presenza -aldilà della metafora più banale del «regista burattinaio» – si sente molto nel film (senz’altro scomodo in quest’era di identità politics scolpite nel granito) – Deja, le pillole verdi, la pornostar, una macchina del tempo come la DeLorean…È come se entrasse e uscisse da Marwen anche lui.