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Il tema prevalente di questa edizione del Festival di Udine «Vicino lontano», la fragilità che scaturisce dalla nuova configurazione globalizzata del mondo, è stato affrontato da relatori molto diversi l’uno dall’altro, senza che però ci si allontanasse mai del tutto da questo impasto di incertezza, vulnerabilità, frustrazione e paura che tocca e spesso sconvolge persone che d’improvviso hanno l’impressione di trovarsi sulle sabbie mobili o sull’orlo di un precipizio.

Ospite d’onore l’argentino Martín Caparrós, autore del libro La fame, che sviscera questa raccapricciante realtà attraverso i suoi viaggi nei luoghi (dal Bangladesh all’India, dal Niger al Kenya e a molti altri Paesi) dove ancora non c’è la possibilità, per molti, di mangiare abbastanza, dove spesso si muore letteralmente di fame. Una ferita, questa, che non è tuttavia una novità dei nostri giorni: è antica, e benché la popolazione sulla Terra sia aumentata a sette miliardi, se ne potrebbero sfamare adeguatamente dodici miliardi.

A parole tutti si dichiarano contrari a far morire la gente di fame, ma di fatto i dati incontestabili e una consapevolezza irreprimibile non bastano a mobilitare gli sforzi dei cittadini e (forse solo) poi dei governi che sarebbero indispensabili a lavare questa macchia dell’umanità. E allora Caparrós va di persona a incontrare gli sfortunati e li racconta, perché un conto sono i dati freddi e dimenticabili, tutt’altro conto la vividezza con cui descrive esseri umani in carne ed ossa, con le loro storie, la loro rassegnazione di agnelli sacrificali.

Le storie, se ben narrate, si ricordano, consentono l’immedesimazione, possono essere assunte da chi le legge e modificare visioni e atteggiamenti. Due elementi che vengono di solito ignorati e che il libro mette a fuoco sono la fame come questione di genere, visto che in numerose parti del globo, fra cui la Cina, se c’è da mangiare per una persona sola, il maschio viene nutrito e le donne no senza la minima recriminazione, poiché tutti ritengono che sia la cosa giusta, che non possa né debba essere altrimenti. Il secondo elemento che potrebbe sorprendere è un’incarnazione della fame negli obesi, in coloro cioè che, non disponendo delle risorse economiche per alimentarsi in modo corretto, si nutrono di junk food.

Un altro tema non specifico della contemporaneità è quello della tortura, che la filosofa Donatella Di Cesare ha trattato nel corso della lectio magistralis «Nelle mani del più forte. Nuove forme di tortura». Di Cesare però non parla della tortura del passato, bensì delle sue forme rivedute e aggiornate che ne permettono e anzi addirittura ne incoraggiano la perduranza. Tutti parrebbero auspicare che la tortura sparisse dal nostro mondo perché fa orrore, eppure due intellettuali statunitensi «liberal» come Michael Walzer e Alan Dershowitz ammettono eccezioni per la tortura, sostenendo che di fronte al «grande male» del terrorismo la tortura è «il male minore».

Walzer critica gli intellettuali europei e li taccia di «assolutismo» perché non vogliono sporcarsi le mani con la tortura mentre in certi casi sarebbe necessaria la sospensione del diritto. Il problema è che non sono i soli a pensarla così, poiché buona parte del mondo accademico americano sposa un «realismo etico», un pragmatismo che invoca il diritto di avere mano libera se serve, innestando una «democratizzazione della tortura». È difficile inoltre stabilire se è più curiosa o preoccupante la motivazione addotta per giustificare o piuttosto rendere necessaria la tortura: l’eventualità di una bomba a orologeria che ucciderà gli alunni di una scuola o altri inermi da qualche parte se il terrorista prigioniero non rivela il luogo in cui i suoi accoliti l’hanno attivata. È quanto succede nella serie televisiva 24, in cui l’eroe Jack Bauer, agente del controterrorismo, deve torturare i terroristi per salvare molte vite ed è dipinto con tratti salvifici. Ma la seguitissima serie è solo il prodotto di uno pseudorealismo, poiché non si è mai verificato un caso del genere nella realtà.

Di estremo interesse l’incontro «Isis. Il marketing dell’apocalisse» in cui Bruno Ballardini ha parlato della natura speculare delle strategie di promozione usate dall’Occidente e dall’Isis. Questa tesi era stata avanzata da Slavoj Žižek nel suo libro del 2004 Iraq, dove oltretutto prevedeva la nascita di un vero e proprio Stato Islamico come reazione all’invasione di uno Stato sovrano, appunto l’Iraq, da parte degli Usa con motivazioni pretestuose e infondate.

Ballardini ha descritto con efficacia l’immaginario da videogioco che permette di militarizzare giovani che, nel vuoto di senso dei giorni nostri, accolgono con entusiasmo l’apocalisse messianica che contrappongono all’apocalisse del capitalismo, e soprattutto ha sottolineato come il «Grande Gioco» dei giorni nostri sia una riattualizzazione della Guerra Fredda fra Usa e Russia, mentre i cinesi stanno facendo man bassa di terreni in Africa nell’attesa che, dopo la guerra in corso per il petrolio, divampi la prossima guerra per il cibo.