Dalle terre dove producevano violenza i Casalesi, i Piromalli e i corleonesi di Totò Riina, le cooperative sociali che gestiscono i beni confiscati dallo Stato alle famiglie mafiose estraggono i frutti del lavoro di circa 150 persone impegnate nei progetti di Libera Terra per il recupero e il rilancio dei terreni con lo scopo di riconsegnarli alla collettività, creando valore sociale ed economico. Da questo impegno quotidiano fatto nei campi, nelle cantine, nei frantoi e negli uffici commerciali nasce la gamma di prodotti bio che si trova negli scaffali di tanti centri commerciali in Italia e nelle botteghe dei saperi e dei sapori. Un brand, quello di Libera Terra, che racchiude la lotta per l’affrancamento da ogni forma di criminalità mafiosa ma soprattutto la grande sfida sociale e imprenditoriale per creare opportunità di sviluppo nelle zone liberate di Sicilia, Calabria, Campania e Puglia. Lì dove Bernardo Brusca, boss di San Giuseppe Jato, accatastava i suoi attrezzi di campagna nel baglio del Settecento alle spalle di Portella della Ginestra sorge un agriturismo con 50 coperti e tre camere, dove un cuoco, che per amore s’è trasferito dal Lazio in Sicilia, prepara per i clienti i suoi piatti usando i prodotti realizzati con la materia prima coltivata dagli altri soci e lavoratori delle cooperative che operano nelle terre confiscate.

Nel paniere food&wine di Libera terra ce n’è per tutti i gusti. Ci sono gli anelletti e la caponata di melanzane siciliani, i tarallini e le friselline pugliesi, la zuppa di lenticchie, il cous cous di grano duro, i frollini all’arancia con fave di cacao, la passata di pomodoro fiaschetto di Puglia, la mozzarella e la ricotta di bufala campana dedicate a don Peppe Diana, il frate assassinato a Casal di Principe nel ’94 dalla camorra. Dietro a una confezione di pasta o a una bottiglia di olio c’è un lavoro di gruppo che fino a qualche anno fa era inimmaginabile. «Avevamo la legge Rognoni-La Torre sulla confisca ma lo Stato non sapeva che farsene dei beni sottratti alle mafie, poi don Ciotti ebbe l’intuizione e con Libera pensò al progetto di rendere produttivi quei beni per riconsegnarli alla collettività dando il segnale che le istituzioni sono più forti», dice Lucio Guarino, anima storica del consorzio sviluppo e legalità dell’Alto Belice.

Un percorso lungo, complicato. «Si aveva l’idea ma bisognava realizzarla, renderla concreta – ricorda Guarino – È cominciata una avventura alla quale hanno partecipato tanti uomini dello Stato e che ha permesso di concretizzare quella intuizione, forse tra cinquant’anni si capirà l’immenso valore che quell’idea ha prodotto in termini reali». Eppure c’è chi accusa la rete di Libera di avere creato una sorta di monopolio della legalità, facendo concorrenza sleale. «Chi dice cose del genere fa solo gli interessi delle mafie – sostiene Guarino – È inutile cercare altre spiegazioni, il solo scopo è quello di tutelare la criminalità organizzata». Insomma, avanti tutta. «Anche perché ci sono tanti problemi insoluti nonostante siano stati fatti passi importanti come le modifiche alla legge sui beni confiscati, che vanno nella giusta direzione». Quello che manca è ancora la condivisione organica e univoca a tutti i livelli istituzionali e pubblici dei problemi in campo.

«Purtroppo a volte constatiamo che qualcosa non funziona – sottolinea Valentina Fiore, del consorzio Libera Terra – In passato abbiamo cercato una interlocuzione con le misure di prevenzione del Tribunale di Palermo. All’epoca a capo c’era Silvana Saguto. Abbiamo scritto al Tribunale che eravamo disponibili a gestire alcuni beni sequestrati, così come avevamo fatto a Trapani. Non ci ha mai risposto, così come non abbiamo ricevuto risposte neppure da chi è subentrato alla guida di quell’ufficio, eppure non chiedevamo alcun canale privilegiato». Anche con l’Agenzia nazionale per i beni sequestrati e confiscati, il consorzio non ha avuto fortuna. E ora che la sede di Palermo dell’Agenzia rischia di chiudere, tra gli operatori in pochi si strappano i capelli. «Non mi pare rilevante rispetto ai problemi che affrontiamo quotidianamente nella gestione dei beni – chiarisce Lucio Guarino – Anzi, chiudere la sede è un modo per risparmiare, mi auguro solo che le risorse vengano reinvestite».