Il libro più importante di Arthur Danto, La trasfigurazione del banale, contiene un’incoerenza plateale. Quest’incoerenza è ciò che me lo ha fatto amare di più e che mi ha dato un primo indizio sull’autore. Un filosofo che, per amore, lascia vivere nella sua opera maggiore una contraddizione così vistosa – pensavo – deve essere una persona amabile. Quando poi, nel 2007, venne invitato dall’università di Torino per il conferimento di una laurea ad honorem, trascorsi qualche giorno con lui e la sua seconda moglie, la pittrice Barbara Westman, e quella supposizione venne ampiamente confermata. Il 25 ottobre Danto è morto nella sua casa di Morningside, vicino alla Columbia University, e il mondo è diventato un po’ più povero.
In che consiste quell’incoerenza plateale a cui alludevo? La trasfigurazione del banale è un libro colto, brillantissimo e avvincente, che, oltre a contenere alcune tesi sulla natura dell’arte, rievoca elegantemente quella scena artistica newyorkese tra gli anni ’50 e ’70 che Danto conosceva così bene.

La domanda da cui nascevano le sue ipotesi era questa: come mai Brillo Box di Andy Warhol – per esempio – è considerata un’opera d’arte, mentre le scatole di spugnette saponate, identiche a quelle esposte da Warhol, restano allineate negli scaffali di un supermercato e costano 200 volte meno delle scatole di Warhol? Invece di indignarsi e di gridare alla frode – come oggi, continuano a fare in molti, Jean Clair in testa, cavalcando il risentimento borioso di un certo senso comune, – Danto voleva capire. E per capire affronta un percorso avvincente, che qui posso solo riferire nel suo esito principale: ciò che distingue un’opera d’arte da una semplice «cosa materiale» – anche se l’opera e la «cosa» sono percettivamente «indiscernibili» – non sono le loro proprietà osservabili (colori, forme, materiali), ma le loro proprietà «relazionali», vale a dire le relazioni che intrattengono con il mondo, la storia, l’autore, gli interpreti e così via. In effetti, fa una bella differenza se io oggi acquisto la «proprietà relazionale» di essere «padre» o «presidente del consiglio», benché le mie proprietà osservabili restino immutate. La mia identità, i miei comportamenti e le mie parole assumono un significato e un valore diversi.
Qualcosa di analogo varrebbe per le «cose» banali quando vengono «trasfigurate» in opere d’arte. Ne discende che la percezione non avrebbe nulla a che fare con la differenza tra una «cosa» e un’opera d’arte, dato che le proprietà relazionali non possono essere percepite.
Danto difende questa idea con esempi memorabili e ingegnosi esperimenti mentali. Arrivato in fondo al libro, però, il lettore non crede ai suoi occhi. Improvvisamente, forse senza rendersene conto, Danto contraddice tutte le sue tesi: ciò che decide se un’opera d’arte ha un proprio «stile», e non solo una «maniera», dipende da che persona è il suo autore: «lo stile è l’uomo». E questo «stile» diventa la condizione decisiva dell’artisticità di un’opera. Se Rembrandt ritrae la sua amante nuda, benché vecchia e cadente, ciò che noi vediamo, quel che percepiamo, non sono le offese del tempo sulla sua carne, ma l’amore mediante cui Rembrandt vedeva Hendrickje. Altro che proprietà relazionali! Sono pagine bellissime, di cui Danto offre una chiave di lettura nella prefazione, ricordando la moglie Shirley, morta poco prima, e confessando di essersi reso conto, a libro stampato, di aver «scritto un memoriale filosofico di mia moglie e del nostro matrimonio».
Una volta gli chiesi conto di questa contraddizione. Mi rispose, sorridendo, di ammetterne molte altre. Era uno dei suoi modi di essere un maestro.