Per il Movimento 5 Stelle la vigilia dell’incontro con Mattarella è probabilmente il giorno della presa d’atto. Anche i più ostinati si sono convinti del fatto che i margini di manovra sono minimi. E che l’operazione che puntava a de-renzizzare definitivamente la maggioranza non decolla.

Il reggente Vito Crimi sale oggi pomeriggio al Colle assieme ai due capigruppo Davide Crippa ed Ettore Licheri. Non ci saranno né l’ex capo politico Luigi Di Maio né il capodelegazione nel governo uscente Alfonso Bonafede. Di fatto, secondo la versione che circola sommessa tra grillini, l’unica strada praticabile è che i tre portavoce finiscano per consegnare a Mattarella una posizione-fotocopia, al netto delle differenze di linguaggio e di punto di vista, di quella del Pd che si basa su due pilastri: disponibilità per un governo Conte Ter e nessun veto all’interlocuzione con Italia Viva per la ricostituzione della maggioranza.

Di fronte allo stallo nella ricerca dei parlamentari «responsabili», nella quale i grillini nel giro di dieci giorni hanno confidato non si sa su quali basi e per due volte (prima del voto al senato e all’indomani delle dimissioni di Conte) questo è l’esito obbligato. Una posizione dettata da condizioni oggettive, dovute ai rapporti parlamentari e alla forza dei numeri. Ma anche a vincoli soggettivi, interni ai 5 Stelle. Essendosi chiusa, almeno per il momento la strada di una maggioranza a favore di Conte senza Italia Viva, e di fronte all’esigenza di trovare una soluzione per evitare le urne manifestata in maniera più o meno palese dalla gran parte dei parlamentari del M5S, da un paio di giorni si assiste alla lenta ma inevitabile marcia indietro rispetto al «No a Renzi» dei giorni scorsi. Accanto alle parole di chi esplicitamente invoca la necessità di essere pragmatici e riallacciare i rapporti con il senatore di Rignano, è circolata dapprima la formula secondo la quale è con la maggior parte dei parlamentari di Italia Viva che bisogna parlare, senza focalizzarsi sul leader. Di fatto un modo per non chiudere l’ultimo spiraglio.

Resta in campo, minoritaria ma di facile presa dopo giorni di cannoneggiamenti agli ex alleati, la posizione di contrarietà assoluta a Renzi manifestata da Alessandro Di Battista. «Ora il Movimento 5 Stelle può fare un regalo enorme a questo paese – dice ad esempio il deputato Francesco Forciniti – ponendo fine all’esperienza politica di Matteo Renzi. Basterà mantenere la barra dritta e tenerlo fuori dal governo».

Si vedrà fino a che punto questa posizione produrrà una rottura nei gruppi parlamentari e in che misura inciderà nelle prossime mosse. «Perché se Renzi dovesse esagerare e puntasse a umiliarci – dicono dal M5S – allora sarebbe difficile arginare Di Battista».
La situazione è confusa al punto che molti dei parlamentari che giorni fa avevano consegnato a Crimi un documento nel quale si invitava a considerare Conte «un mezzo per attuare il programma del M5S e non un fine» adesso partecipano a incontri riservati volti a sostenere la posizione diametralmente opposta: «Voteremo la fiducia solo a un governo Conte». Il presidente uscente viene visto come un argine alle aspirazioni e alle operazioni sottotraccia che potrebbero venire da dentro il M5S, da Lui.

Di certo, le altre due opzioni sul campo disegnano scenari ancora più rischiosi per l’esistenza stessa del M5S: cedere su Conte significa riaprire i giochi a 360 gradi e dare la stura alle tante anime del M5S. Peggio ancora, forse, sarebbe tentare l’azzardo di elezioni suicide per il M5S, di fronte alle quali scatterebbe il si salvi chi può. La pattuglia che si avvia mestamente verso il Quirinale, in una giornata segnata da poche dichiarazioni e con i pallottolieri riposti nei cassetti, deve porsi l’obiettivo minimo alla ricerca di un accordo che ricostituisca la maggioranza di Conte. Poi navigare a vista, col paradosso che se cadesse definitivamente Conte toccherebbe ai 5 Stelle proporre un nome per Palazzo Chigi.