Le istituzioni culturali pubbliche bolognesi si stanno risvegliando dal torpore degli ultimi decenni quando la vitalità della scena culturale cittadina era delegata a operatori per lo più esterni all’amministrazione, come il Link e altri spazi alternativi. Certo, siamo ancora lontani dalle sperimentazioni degli anni ’80 quando Francesca Alinovi portava la mostra Registrazione di Frequenza alla Galleria d’Arte Moderna e, insieme a Renato Barilli e a Roberto Daolio, organizzava la Settimana Internazionale della Performance (dal 1977 al 1982). O quando i Clash suonavano in piazza Maggiore con un concerto organizzato anche per lenire le ferite aperte con il movimento studentesco dopo i tragici eventi del ’77, e Carmelo Bene leggeva l’Inferno di Dante dalla torre degli Asinelli nel 1981.

SITUAZIONI E ATMOSFERE difficili da eguagliare, splendori emaciati di mutamenti sociali resi iconici da artisti e musicisti, e intercettati da dirigenti comunali attenti come Mauro Felicori, che ai tempi era assessore alla cultura del comune di Bologna. Oggi, però, vi sono segnali che indicano la volontà di riposizionare Bologna nella mappa della scena culturale e artistica italiana, facendola dialogare con la ricca e stratificata storia della città e della Regione.
Lorenzo Balbi è il direttore artistico del Mambo e dei Musei civici bolognesi. Lo abbiamo incontriato dopo aver visitato That’s IT!, Sull’ultima generazione di artisti in Italia e a un metro e ottanta dal confine (aperta fino all’11 novembre), la prima mostra da lui curata, dopo la nomina un anno fa. Nel percorso, vi sono i lavori di oltre cinquanta artisti e collettivi, accomunati dall’essere nati dopo il 1980. Un’esposizione coraggiosa che sembra voler essere anche una dichiarazione d’intenti, dal momento che si tratta di una ricognizione che nessun museo pubblico aveva finora affrontato.
Nella Sala delle ciminiere del Mambo, il pubblico è invitato a perdersi e a interrogarsi sulle tante opere presenti, tra installazioni, video, fotografie, sculture, dipinti e opere su carta.

SI PASSA dal film-saggio di Francesco Bertocco sulle neuroscienze emozionali, alle videoinstallazioni di Margherita Moscardini che documentano le 15mila fortificazioni presenti lungo la costa atlantica europea, dalle immagini prelevate da google street view di Emilio Vavarella, alle pratiche archivistiche di Ian Tweedy, per ricordarne solo alcuni. La complessità è ricercata. Balbi non ha voluto fornire letture univoche e eterodirette per permettere al visitatore di navigare in modo rizomatico tra le opere in mostra.

IL SOTTOTITOLO della rassegna, Sull’ultima generazione di artisti in Italia e a un metro e ottanta dal confine, è abbastanza curioso. Ma è ancora possibile definire un artista in base alla propria appartenenza geografica? «Il sottotitolo cita le parole di una poesia di Bruno Munari, Arte e Confini, pubblicata nel 1971 all’interno del Codice Ovvio», afferma Balbi, con la gentilezza e la disponibilità che lo contraddistinguono. E poi aggiunge: «Già oltre quarant’anni fa Munari si chiedeva se avesse senso definire un artista in base alla sua appartenenza geografica. Oggi, in un mondo globalizzato e iperconnesso, in cui la mobilità fisica e virtuale è alla portata di tutti, e i confini sono sempre più indefiniti, questa categorizzazione appare ancora più insostenibile. Ecco perché alcuni degli artisti in mostra non hanno il passaporto italiano, possono essere stranieri che hanno studiato in Italia, come Ian Tweedy, oppure italiani che vivono da molti anni all’estero, come Danilo Correale. O, ancora, stranieri che qui hanno trovato un luogo privilegiato per poter portare avanti la propria ricerca. La mostra indaga una sorta di ‘ius soli artistico’, per questo si parla di artisti ‘in Italia’ e non italiani. Intende inoltre dialogare con un sistema dell’arte che opera seguendo questa categorizzazione univoca. Basti pensare al Padiglione Italia alla Biennale di Venezia, ai premi o alle residenze, alle borse di studio. Agli artisti ho chiesto di mettersi in gioco e ho permesso loro di scegliere le opere che ritenevano rappresentative. L’auspicio è che ogni visitatore, al termine della mostra, possa costruirsi la propria opinione sui millenials, individuandone analogie e tipicità. Ovviamente, ho una mia opinione su questa generazione: è innegabile che vi siano temi ricorrenti riguardanti il contesto sociale, come la crisi economica e la precarietà lavorativa, ma insisto nel ritenere che l’obiettivo della mostra è presentare l’eterogeneità delle pratiche artistiche e non dichiarare presunte attitudini collettive».

DOPO LA VISITA di That’s IT! proseguiamo al piano superiore del museo, dove nella Project Room è ospitata la mostra dedicata a Rosanna Chiessi, editrice e pasionaria dell’arte contemporanea, mancata prematuramente nel 2016, vicina ad artisti e poeti come Emilio Villa, Corrado Costa, Adriano Spatola. Chiessi ha portato a Reggio Emilia artisti internazionali attivi in ambito Fluxus come Dieter Roth, Nam June Paik e Charlotte Moorman, dell’Azionismo viennese (Hermann Nitsch), o performativo (Urs Lüthi).

FONDATRICE delle edizioni Pari&Dispari nel 1968, ha prodotto libri e mostre per fiere e spazi istituzionali, ma anche eventi «popolari» a Cavriago, sia nella casa colonica in cui viveva, circondata da stalle e porcilaie, sia coinvolgendo l’intero paese con eventi a tema come Fascino della carta e Festa dell’aria, sia organizzando rassegne come Tendenze d’arte internazionale, con i primi concerti Fluxus.

La questione che poniamo a Balbi è se l’azione di scavo archivistico che ha intrapreso con la mostra dedicata a Roberto Daolio, confermata ora con quella su Rosanna Chiessi, e che proseguirà in autunno con VHS+. Produzioni video tra analogico e digitale 1995-2000, continuerà in futuro.
«Sì, anche nei prossimi anni – risponde -, perché la Project Room è uno spazio ’strappato’ dal percorso della collezione permanente per presentare mostre legate alla scena culturale bolognese ed emiliana, per riportare alla luce esperienze importanti del territorio e leggere con maggiore consapevolezza il presente. Questo è un compito fondamentale per un museo pubblico come il Mambo, centro di studio e di ricerca privilegiato per la Regione in cui opera. Si stanno moltiplicando le collaborazioni con le tante istituzioni pubbliche e private e i festival presenti in città. Collaboriamo con la Fondazione Cineteca di Bologna, con l’università, l’Accademia di belle arti, Biografilm, BilBolbul, Fiera del libro per ragazzi, Fruit, Gender Bender, Live Arts Week, Future Film Festival, e molti altri. Credo che l’arte contemporanea appartenga a tutti e che faccia parte della nostra quotidianità. Per questo motivo, abbiamo ottenuto una modifica dell’orario del museo che al giovedì sera è aperto fino alle 22. Ogni settimana, poi, proponiamo eventi, performance, presentazioni di libri, conferenze, affinché il Mambo sia vissuto come luogo accogliente, curioso e dinamico».
Una sfida che il giovane neo direttore sembra stia vincendo.