È una verità universalmente riconosciuta – o almeno riconosciuta da chi ha una qualche consuetudine con il mondo dell’editoria – che un libro appartiene solo in parte a chi mette il proprio nome sulla copertina. Tralasciando le autopubblicazioni (per le quali comunque l’autore o l’autrice deve fare i conti con entità reali, sebbene remote), perché un libro approdi in libreria è necessario il lavoro di una quantità di persone così varia e numerosa che qui non ci si prova neppure a elencarla.
Ci prova invece, più o meno riuscendoci, l’americana Kelly Jensen (ex bibliotecaria e oggi autrice di due antologie, Here We Are e (Don’t) Call Me Crazy, dedicate rispettivamente al femminismo e alla salute mentale), sulla rivista online Book Riot, dove la scrittrice si occupa di letteratura per adolescenti, quelli che ormai anche in Italia sono definiti in ambito editoriale Young Adults. Jensen prende spunto dall’ultima pagina di Last Night at The Telegraph Club, un romanzo appunto YA, uscito da poco negli Stati Uniti, sulla quale sono elencati i nomi di tutti coloro che hanno lavorato sul libro: «A essere citati non sono solo il redattore, l’agente e l’editore, ma anche le persone che si occupano delle vendite, del marketing e della pubblicità e che hanno contribuito a portare il romanzo ai lettori. E pure i disegnatori e i grafici sono elencati, così come i responsabili dell’ufficio diritti e delle vendite all’estero, i copy editor e persino il team che ha lavorato all’edizione audio del romanzo».

Insomma, conclude Jensen, «ogni persona che abbia avuto un ruolo nel libro, che abbia risposto a un’e-mail o che sia stata presente nei mesi dell’editing, è vista come una parte vitale della creazione dell’opera». Un’ottima idea, secondo la scrittrice, che invita colleghe e colleghi a seguire l’esempio di Malinda Lo, la giovane autrice di Last Night at The Telegraph Club. È stata infatti lei a chiedere l’inserimento nel volume, oltre ai canonici ringraziamenti, di una pagina dei credits, richiesta prontamente assecondata dalla casa editrice, Dutton Books, sigla «giovanile» all’interno della galassia Penguin Random House.

Ora, i più attenti fra i lettori italiani sanno che da noi la pratica di citare alla fine di un libro i nomi di chi ha contribuito alla sua realizzazione non è una novità: lo fa per esempio da anni – ed è stata probabilmente l’antesignana in questo – la casa editrice minimum fax nella pagina dei «titoli di coda» (esplicito, come per i credits, il riferimento cinematografico) e lo fanno numerose altre sigle medie e piccole, da Sur alla Nuova Frontiera, a TerraRossa.

Proprio per questo però, superata la soddisfazione di avere (forse) anticipato gli Stati Uniti, vale la pena chiedersi come mai oggi qui e là si tenda a valorizzare figure che operano dietro le quinte dell’editoria. Certo, è un riconoscimento sacrosanto, ma quanto può effettivamente compensare lavori che spesso (per fortuna non sempre) sono precari e mal pagati? E ancora, a partire dalle analogie con il cinema, quanto questa tendenza rivela una sempre crescente industrializzazione dell’editoria? E viceversa, perché in Italia ad adottare i credits sono editori indipendenti, mentre negli Usa, almeno nel caso citato da Jensen, ad aderire alla proposta è un marchio appartenente a una delle maggiori concentrazioni editoriali al mondo?
E infine: siamo sicuri che i credits siano esaustivi come sostiene Jensen, che li definisce «lo strumento perfetto per lettori, autori ed estimatori»? Quasi impossibile, per esempio, trovare una firma in fondo a una quarta di copertina – e sì che in tanti casi si avrebbe voglia di sapere chi ha avuto il coraggio di scrivere certe sciocchezze.