Ha vinto Sacro Gra, Bernardo Bertolucci, presidente della giuria, è stato bravissimo a dare un Leone d’oro che, come la Coppa Volpi a Elena Cotta, protagonista dell’esordio di Emma Dante Via Castellana Bandiera, premia dopo anni di spinose polemiche per la sua mancanza il cinema italiano, in una forma non codificata. Gianfranco Rosi è uno dei nostri registi più bravi, talento inclassificabile come il suo cinema, e come questo film che percorrendo l’anello stradale intorno a Roma, produce una specie di variazione magica delle forme cinematografiche: slapstick, commedia, immersione in profondità, racconto del tempo presente e traduzione del «reale» nel ritmo inafferrabile fuori dalla metropoli, nei suburbi con le palme ammalate.
Ai suoi attori che non sanno di essere tali, perché dentro a un documentario Rosi, molto emozionato, ha dedicato il film. E questo Leone finalmente ci libera anche da quell’improbabile separazione – finzione e documentario – premiando Barbera che lo ha messo in concorso contro l’idea che i documentari non sono film. Del resto proprio il cinema italiano ha prodotto le sue cose migliori nei territori lontani dalle abitudini, nella contaminazione visiva e nell’esperienza fuori dalle sue strutture produttive istituzionali – pensiamo a Le quattro volte di Michelangelo Frammartino o a L’intervallo di Leonardo Di Costanzo.
«Non bisogna avere paura di chiamare il documentario cinema» ha detto ancora Rosi. Del resto: come definire Stray Dogs di Tsai Ming Liang, gran Premio della giuria a un regista che ha segnato le nostre visioni, e che qui, in una Taipei di squallore visionario da un’immagine alla crisi del nostro tempo, forse anche alle esitazioni del cinema reinventando il tempo, lo spazio, nella pazienza e in una diversa disponibilità dello sguardo.
Ma di fronte a un fare cinema aperto, di libertà del pensiero, e amando il cinema di Bertolucci, risulta davvero incomprensibile se non negli equilibri difficoltosi delle giurie, il doppio premio a un progetto di cinema autoritario quale quello di La moglie del poliziotto di Philip Groening e Miss Violence (anche coppa Volpi per il miglior attore) esordio del greco Avranas dimenticando Garrel, Reichardt, Morris …
Entrambi, e il greco in modo ancora più sgradevole, celebrano quel sistema chiuso, di imposizione di uno sguardo telediretto, che non lascia margini ai personaggi come allo spettatore. Il doppio finale di La moglie del poliziotto non è altro che la conferma di questo sistema chiuso, in cui ogni possibilità viene sviscerata, offerta perché oltre non è dato immaginare nulla. Ancora oltre va il film greco, compiaciuto del proprio disprezzo verso i personaggi tutti laidi e senza orizzonte. Il cinema è tante cose diverse ma del compiacimento fine a se stesso c’è davvero bisogno?