Gli mancheranno soprattutto l’intervento studiato con cura, la resa dei conti in diretta tv, lo spettacolo di lui che parla e Renzi costretto ad ascoltare nel suo banco al senato, i sassolini tirati fuori dalla scarpa uno a uno. Gli mancherà la sua retorica, «quanto a» questo, «con particolare riguardo» a quest’altro. Gli mancherà il bis del 20 agosto 2019, il giorno in cui l’oggetto misterioso della politica Giuseppe Conte, il presidente del Consiglio per caso rimasto per i 445 giorni del suo primo governo sotto l’ombra di due vicepremier, quello costretto a farsi fotografare con il cartello del decreto Salvini, quello tirato via da Casalino mentre prova a parlare con i giornalisti al suo primo G7, sbocciò improvviso nell’aula del senato facendo Salvini, lentamente, a fette.

È COME SE LA SUA STORIA politica fosse cominciata allora, per paradosso nello stesso giorno in cui rassegnò le sue prime dimissioni. Ma, quella volta, dopo aver portato in parlamento la crisi come ha sempre detto di voler fare. «Parlamentarizzare», anche se a dirla tutta nemmeno quella volta se la sentì di farlo fino in fondo sfidando il voto di fiducia. Perché c’è la teoria, l’«ho sempre detto e ribadito che la fiducia la dà e la toglie il parlamento», ma poi c’è il pratico tentativo di restare in sella per ancora un altro incarico. E per questo è meglio non farsi sfiduciare (o non far bocciare Bonafede, che è lo stesso).

E COSÌ QUESTA VOLTA Conte si dimette senza passare per il parlamento, anzi pochi giorni dopo che – malgrado tutto – sia la camera che il senato gli hanno confermato la fiducia. Come ha spiegato mille volte lui stesso a chi in questi giorni andava a dirgli che, insomma, il Conte 2 era arrivato al limite. La resa è soprattutto questa: non passare per il senato, non sfidare chi gli ha teso la trappola, non provare a vincere la mano a carte scoperte, di nuovo, questa volta. Anche perché la settimana scorsa Conte al senato si era dovuto trattenere. Viaggiava sul filo dei numeri e Renzi non poteva certo prenderlo di petto in aula, mentre da palazzo Chigi cercava sottotraccia i renziani.

E ALLORA FINISCE che si va per sentieri. L’annuncio stamattina nel Consiglio dei ministri, le dimissioni al Quirinale, la fantasia spericolata e assurda di un reincarico immediato senza neanche le consultazioni. Ma soprattutto la paura, a questo punto, di chiudere tutto senza una verifica pubblica delle responsabilità, di andarsene insomma con uno splash e non con un bang. Anche se l’obiettivo è quello di non andarsene affatto. Di ricevere subito un nuovo incarico per formare un seminuovo governo. Sarebbe la quarta volta.

La quarta, e non la terza, perché nella storia di questo sconosciuto alla politica che piano piano si sta costruendo un curriculum ministeriale alla Rumor, c’è anche un primo incarico finito male. Quello durato appena quattro giorni e fallito per l’intestardirsi sul nome di Savona per l’economia (non certo lui, sia chiaro, a intestardirsi furono Di Maio e Salvini). Una falsa partenza utile a Conte e ai suoi primi alleati per prendere le misure al presidente della Repubblica e di conseguenza rinculare ordinatamente. Risale a quel tentativo fallito l’auto definizione più celebre di Conte, la scritta sul piedistallo dal quale a volte tende ad affacciarsi: «Sarò l’avvocato del popolo». Da oggi l’avvocato sfida la storia: in settant’anni di Repubblica il terzo incarico segna il confine tra i ventidue presidenti del Consiglio che hanno governato per uno o due mandati e i sei soltanto che l’hanno fatto minimo per quattro volte. Da tre si può solo ricominciare.

Ma leader di tre coalizioni diverse, questo nessuno lo è stato fatto mai. Forse perché Conte proprio un leader non è, ma è stato la sintesi incarnata di un’alleanza proto sovranista, poi di un centrosinistra di nuovo conio e adesso tenta come volto unificante per una maggioranza di responsabilità nazionale.

Del resto i suoi governi hanno montato la linea razzista dei decreti anti migranti e poi hanno cominciato a smontarla. Le sue maggioranze hanno annunciato la riforma costituzionale che mortifica il parlamento, l’hanno poi portata a compimento quando la sinistra ha sostituito i sovranisti e adesso si candidano ad allontanarne gli esiti, perché votare per meno deputati e senatori senza aver cambiato legge elettorale e regolamenti parlamentari è una follia. Quando nell’aula del senato Conte liquidò Salvini, lo fece accusandolo di non lasciargli completare la riforma della giustizia. Diciassette mesi dopo quella riforma rimasta al palo è una delle prime cause della crisi. Eppure lui è ancora pronto a promettere che la prossima sarà sicuramente la volta buona. Se ci sarà una prossima. Se riuscirà a prendersi la sua quarta chance.