Artista multidisciplinare ateniese, Poka-Yio è cofondatore e direttore dal 2005 della Biennale di Atene, assieme alla curatrice Xenia Kalpaktsoglou. Da ottobre la nuova edizione rilancerà il forte tratto politico della manifestazione, la più nota e visibile del ramificato movimento artistico ateniese, che si è assunto negli ultimi anni il compito di raccontare ed elaborare la crisi del paese. Poka Yio ha risposto ad alcune nostre domande.

Da anni si descrive Atene come una delle città più vitali d’Europa per l’arte e la cultura… È così?
Atene oggi è al centro di un colossale esperimento, è la frontiera di uno scontro fra valori e ideologie che si gioca sul terreno sociale. È un po’ come trovarsi al Cern di Ginevra: la città è una sorta di gigantesco acceleratore delle dinamiche sociali. E moltissimi vengono, anche dall’estero, per vedere come si comportano le particelle in determinate condizioni, molto al di fuori della norma. Per questo ad Atene arrivano, e talvolta si stabiliscono, tante persone: ricercatori sociali, artisti, architetti, urbanisti. Di fronte a tali stimoli, anche gli artisti greci si sono attivati.

E quali sono le strade che hanno scelto per manifestarsi?
Molti artisti hanno superato il loro ambito abituale, producendo con strumenti diversi le più varie interpretazioni del mondo. Alcuni si occupano in pieno dei contenuti della crisi. E, per farlo, si accostano a nuove professionalità e discipline, diventano ricercatori di ambito sociale o politico, quasi-scienziati, usano mezzi differenti per esprimersi. Sono scelte istintive, condivise da tanti anche se non da tutti.
Il fenomeno più rilevante, però, è stata un’inedita ricerca della collaborazione fra artisti. Eravamo un popolo individualista, ma negli anni della crisi sono sorti numerosi collettivi artistici: il teatro occupato Embros, il gruppo The Depression Era e molti altri, anche di piccole dimensioni, che hanno cominciato a dedicarsi all’arte pubblica. Bisogna collaborare per elaborare discorsi sensati e fertili su una frattura così radicale.

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Poka-Yio e Xenia Kalpaktsoglou

Qual è stato il ruolo della Biennale di Atene in questi anni di crisi?
Fin dalla fondazione, siamo stati una Biennale molto politica. L’anno dopo le Olimpiadi si era diffusa una campagna pubblicitaria, Live your mith in Greece, che raccontava di una Grecia tutta mare, sole e sesso, a misura di turisti. C’era un clima di euforia, ma si coglieva già da allora che qualcosa non andava. Decidemmo di attaccare gli stereotipi e mettemmo in piedi la prima edizione della Biennale, Destroy Athens. Dopo un anno, ci furono i primi scontri in piazza, poi emerse la crisi.
Nelle edizioni successive, abbiamo trasformato sempre più il format della Biennale: non più semplice esibizione artistica, ma evento che richiedeva formule crescenti di partecipazione, anche al pubblico. Stiamo correndo, cerchiamo di rimanere adeguati alla velocità e alla durezza con cui si muove la storia in questi anni. L’ultima edizione, Agora, si è svolta nell’ex Borsa di Atene ed è stato il primo esperimento di curatela collettiva. Abbiamo organizzato dibattiti, open call, più di cento eventi. La Biennale ha un dovere costante di cambiare, per accogliere le novità sociali.

Come sarà la nuova edizione, programmata per ottobre?
Anche qui, tutto nasce dalla crisi. La nuova premessa è che gli eventi non bastano più. Oggi i greci sono a pezzi, non serve qualche bella serata e un po’ distrazione. Occorre qualcosa di tangibile, che resti. Non sappiamo ancora cosa sarà, ma sarà concreto, avrà una durata, e, speriamo, porterà un po’ di ottimismo. Anche per questo motivo, abbiamo deciso che questa Biennale durerà due anni, collegando la quinta e la sesta edizione. Così avremo il tempo per articolare l’inedito processo di produzione artistica. Sarà un laboratorio permanente, con seminari, spazi di incontro per artisti e pubblico, luoghi di dibattito e formazione. Ancora non siamo certi di come si svolgerà il processo, ma abbiamo nominato un curatore del programma, Massimiliano Mollona, un antropologo sociale della Goldsmiths University di Londra. La intitoleremo Omonoia, ovvero concordia, ciò che oggi manca nella società greca e tanto più in Europa. E si terrà in un grande hotel di piazza Omonia, che era chiuso da anni, un luogo molto centrale ed emblematico.

I due anni di durata servono anche a connettervi con l’inizio dell’edizione del 2017 di Documenta, la grande manifestazione internazionale d’arte di Kassel che, per la prima volta, ha scelto di collaborare con un’altra città e ha voluto Atene….
Documenta era nata come fenomeno di avanguardia subito dopo la Seconda guerra mondiale, in una città di confine fra i blocchi occidentale e comunista, quando l’Europa andava ricostruita e la Germania anche. Era il riflesso di ciò che accadeva e dell’inizio della riconciliazione, e avevano dunque una prospettiva molto avanzata. Oggi è un’importante istituzione, che attira ogni cinque anni il meglio dell’arte mondiale, ma che intende recuperare lo spirito avanguardista delle origini. Evidentemente, devono aver pensato che fosse ora di andare fuori a imparare qualcosa di nuovo. Learning from Athens è il nome che daranno a quest’edizione. È un’istituzione tedesca e non deve stupire quanto sia facile la collaborazione. Il team, peraltro, è internazionale e diversi di loro, fra cui il direttore polacco Adam Szymczyk, si sono già trasferiti ad Atene. Credo che l’abbiano scelta, perché questo è il luogo in cui è più evidente la dialettica fra nord e sud del mondo, fra valori contrapposti.

Cosa c’è, secondo lei, alla radice di questa débâcle economica?
È una crisi sistemica. Per mantenere il sistema di produzione della ricchezza, a determinati cicli di crescita devono corrispondere sconvolgimenti e crisi. È come un gioco di carte, ogni tanto devi rimescolarle per fare ricominciare la partita. Ma è un gioco che produce conflitto, pericoli e precarietà. Certo, ad Atene si vede tanta gente che si diverte, fa festa, ha uno stile di vita quasi dionisiaco. È un modo per sentirsi vivi e uscire dal vortice della crisi. Ma è pura apparenza. In città emerge chiara anche l’altra faccia della crisi. Per strada si vedono i nuovi senzatetto. Tanti, soprattutto i giovani sono demoralizzati, non vedono un futuro. Gli anziani si disperano perché non hanno pensioni sufficienti e vedono sparire i risparmi di una vita. Alcuni nelle campagne per fare la spesa devono fare chilometri in montagna per spostarsi da un villaggio a un altro, dove c’è un bancomat e poter ritirare 50 euro. Provate a immaginare cosa significhi per una donna di ottant’anni. Alla fine si sopravvive in qualche maniera, ma è tutto così difficile.

Che forme prende sul versante culturale questa crisi?
Fino a poco tempo fa in Grecia la classe media era ampia: c’erano pochissime persone molto ricche o altrettanto povere. Di colpo, in qualche anno, la classe media è stata devastata e ha cominciato a dissolversi. È un problema che riguarda non solo l’economia, ma anche i valori di cui questa classe è portatrice. Perché le persone più ricche vivono in una sfera internazionale, si spostano quando vogliono, con i loro soldi e aziende. Valori e interessi coincidono. Invece quelli della middle class erano valori diversi, ruotavano intorno alla dignità del lavoro, costituivano il collante della società. Ora cosa resta di quel mondo? Frustrazione, rabbia e nuovi emarginati. La crisi sta sfaldando i legami sociali e diffonde la paura e le reazioni semplificatorie, come quelle di Alba Dorata.

L’arte è in grado di proporre qualche rimedio di fronte al disastro sociale?
Non sono convinto che l’arte possa aiutare la società a uscire dalla crisi. Può aiutare a guardare la realtà da vicino, a coglierla secondo prospettive diverse. Ma per un impatto sociale su scala più ampia dobbiamo essere capaci di andare oltre i cambiamenti in atto. C’è però un altro fenomeno interessante. In questi anni ho visto tanta gente normale, che non aveva mai pensato all’arte, darsi all’artigianato, e tanti artigiani, che non erano mai stati artisti, muoversi verso l’arte vera e propria. Forse succede perché la crisi, da economica, diviene spesso personale e alcuni cercano di restituire senso alla propria identità, di ritrovarsi attraverso un’oggettivazione espressiva.
All’ultima Biennale, c’era una donna, una senzatetto. Faceva parte di un progetto nel quale venivano distribuite fotocamere agli homeless, affinché scattassero fotografie sulla loro realtà. Lei presentò le sue immagini e fui sorpreso dalla sua eloquenza e cultura. In precedenza, lavorava nell’ufficio di un avvocato; poi si era ritrovata per strada, senza casa, disperata. Forse, ha potuto ritrovare un pezzo di sé attraverso l’obiettivo di una fotocamera. L’arte può forse costituire un buon rimedio sul piano individuale. Su quello collettivo è ancora tutto da dimostrare e costruire.