La discriminazione di genere nella comunità scientifica non è una notizia particolarmente originale. Al massimo, ci si divide sulle cause. Qualcuno ricorderà lo scandalo creato dal fisico Alessandro Strumia che, in un convegno, sostenne che le donne siano poco portate per la fisica e inclini a discipline legate alla cura, come la medicina. Ora la prestigiosa rivista medica The Lancet offre un nuovo punto di vista sulla questione e smentisce anche questo mito. L’ultimo numero, infatti, è interamente dedicato al tema della partecipazione femminile alla ricerca medica e al sistema sanitario.
Al contrario di quanto sosteneva Strumia, le disuguaglianze di genere riguardano anche la medicina. Lo dimostra una ricerca sui progetti finanziati dal Canadian Institute of Health Research (Istituto canadese per la ricerca sanitaria) compiuta dall’équipe dalla canadese Holly Witteman dell’università «Laval» di Québec City. Lo studio prova che i finanziamenti alla ricerca vengono assegnati con maggior facilità agli uomini più che alle donne, a parità di curriculum.

MESSA COSÌ, può sembrare un’affermazione generica e difficilmente dimostrabile con i dati. Ma i ricercatori hanno trovato in Canada il laboratorio ideale per verificarla. L’Istituto canadese per la ricerca sanitaria assegna ogni anno finanziamenti, valutando sia il contenuto dei progetti che la qualità di chi li propone. Fino al 2014, il finanziamento teneva conto di entrambi i fattori. Poi, il sistema è stato «sdoppiato». Ora, il 55% dei fondi viene assegnato soppesando la ricerca. Il restante 45%, invece, sulla base della valutazione del ricercatore. In totale, le richieste di finanziamento analizzate sono circa 24mila.
Il risultato è stato piuttosto sorprendente. Confrontando ciò che succedeva prima del 2014 e quanto avvenuto dopo, si può valutare quali fattori influenzino maggiormente la decisione di finanziare o meno una ricerca.
Già nel sistema tradizionale (pre-2014) si osservava un piccolo divario nella percentuale di progetti approvati: agli uomini toccava uno 0,9% in più rispetto alle donne. Dopo il 2014, le cose cambiano radicalmente. Se il finanziamento viene assegnato sulla base della qualità del progetto, la percentuale di approvazione degli uomini e delle donne rimane piuttosto vicina (12,9% contro 12,1%). Se invece i fondi vengono attribuiti valutando chi propone il progetto, la differenza uomo-donna si moltiplica per quattro (12,7% contro 8,8%).
Dunque, quando si tratta di valutare le persone vengono a galla le discriminazioni sessiste. Ricerche che meritavano di essere finanziate sono state fermate solo perché a proporle era una donna. E, viceversa, progetti meno meritevoli sono stati finanziati in quanto sostenute da un maschio. «I pregiudizi nella valutazione impediscono di finanziare la ricerca migliore», conclude lo studio. Le possibili soluzioni ci sono: per esempio, alzare automaticamente le valutazioni ricevute dalle donne per compensare questo handicap di partenza. Ma forse la vera soluzione consiste nel giudicare solo le ricerche proposte e non chi le propone.

INFATTI, la discriminazione nei confronti delle donne, anche se basata su un debole pregiudizio iniziale, tende ad auto-rafforzarsi. Se una ricercatrice ottiene meno fondi per svolgere i suoi studi, ne risente anche il suo curriculum. E con un curriculum peggiore diventa ancora più difficile trovare soldi. «Quando si finanziano le persone, e non i progetti, si rischia di riprodurre le discriminazioni sociali», scrivono le ricercatrici.

SULLO STESSO NUMERO di Lancet, un altro studio dimostra come le questioni di genere non riguardino solo le donne. Il team di Vincent Larivière (anche lui dell’università «Laval» di Québec City) ha esaminato undici milioni di ricerche cliniche e biomediche condotte su campioni di pazienti tra il 1980 e il 2016. L’obiettivo è verificare se i ricercatori tengano conto del genere dei pazienti al momento di valutare l’efficacia di un trattamento in uso ancora allo stato di sperimentazione.
La questione è estremamente rilevante perché secondo un numero crescente di ricerche esiste una «medicina di genere». Cioè, che lo stesso farmaco può avere effetti diversi su uomini e donne, spesso a danno di queste ultime. «Sui dieci farmaci ritirati dal mercato tra il 1997 e il 2001, otto presentavano rischi maggiori per le donne rispetto agli uomini – scrivono i ricercatori – il sesso conta, nella scienza». Invece, fino a pochi decenni fa il corpo umano studiato dai medici è stato quasi esclusivamente quello maschile, in accordo alla massima aristotelica secondo cui «una femmina è un maschio mutilato».

L’ANALISI MOSTRA che dal 1980 a oggi sempre più studi clinici, cioè su pazienti in carne e ossa, tengono conto del genere dei pazienti (oltre il 60%). Ma nella ricerca di laboratorio questo dato non supera il 30%. «Le disparità di genere nei campioni studiati hanno potenziali effetti negativi perché la ricerca di laboratorio svolta su un campione di un sesso poi viene applicata su pazienti di quello opposto nella ricerca clinica», affermano i ricercatori.
L’attenzione per la medicina di genere è più elevata tra le ricercatrici che tra i ricercatori. Le scienziate, infatti, tengono conto del genere dei pazienti in una percentuale molto più elevata dei colleghi maschi. E così facendo favoriscono lo sviluppo di terapie e farmaci più efficaci, in quanto se ne conosce la diversa efficacia a seconda del genere del paziente. La maggiore partecipazione femminile alla comunità scientifica produce conoscenze migliori, e favorirla dovrebbe essere interesse di tutti.

 

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NOTIZIE SCIENTIFICHE

Le api alle prese con la matematica

Secondo i ricercatori dell’università di Melbourne guidati da Adrien Dyer, le api sono in grado di compiere operazioni matematiche. Per scoprirlo, gli scienziati hanno nascosto del cibo dietro una di due possibili porte. Nell’esperimento, alle api veniva mostrata un’addizione o una sottrazione e le due porte corrispondevano al risultato corretto e allo stesso numero aumentato o diminuito di un’unità. I ricercatori che hanno interpretato i risultati, sostengono che per imparare e applicare il concetto di +1 e -1 (con una precisione del 67%) le api impiegano tra quattro e sette ore. Non tutti concordano: il biologo Clint Perry della Queen Mary University di Londra afferma che le api scelgono le immagini secondo altri criteri, basati sulla semplice somiglianza tra i simboli e non su ragionamenti matematici. La ricerca è stata pubblicata sulla rivista Science Advances.

 

La depressione si trova nelle feci

Una ricerca pubblicata sulla rivista «Nature Microbiology» da Jerome Raes dell’università di Lovanio (Belgio), mostra un legame tra la depressione e due tipi di batteri presenti nella flora intestinale. Uno studio su duemila volontari dimostra che nelle feci di individui depressi i batteri Dialister e Coprococcus sono molto meno abbondanti. Ciò non significa che l’assenza dei batteri provochi la depressione. Ad esempio, la malattia potrebbe indurre cambiamenti nell’alimentazione e, di conseguenza, modificare la popolazione di batteri che abita il nostro organismo. Ma i microbi del nostro intestino sembrano misterioramente legati a un gran numero di aspetti della nostra fisiologia apparentemente del tutto slegati, quelli legati al comportamento. La comunicazione tra cervello e intestino è uno dei temi più caldi della ricerca biomedica.

 

Il triangolo amoroso vale pure per i pesci

I pesci della specie «Variabilichromis morii» hanno la rara abitudine di fecondare le uova di una femmina socialmente legata a un altro maschio con cui sono imparentati. I pesci di questa specie sono monogami e si prendono cura della loro prole. Apparentemente, la cura parentale non viene compromessa dalla diversità genetica tra genitore e figlio. Tale diversità, in ogni caso, è limitata dalla familiarità tra il padre biologico e quello putativo. Secondo l’autrice dello studio Kristina Sefc dell’università di Graz, questo comportamento può essere vantaggioso sia per il padre putativo che per quello biologico, in quanto evita l’intrusione di pesci più lontani geneticamente. Secondo la coautrice Aneesh Bose, «lo studio può potenzialmente rivoluzionare la nostra visione della perdita di paternità». Lo studio è stato pubblicato sulla rivista «Bmc Biology»