Un’egemonia politico-culturale che, sebbene a fasi alterne, dura da quasi un trentennio, vale a dire da quando Silvio Berlusconi portò per la prima volta la «destra plurale» alla guida del Paese nella primavera del 1994? O piuttosto il combinato disposto di una crisi di lungo corso che coinvolge la politica e la società italiane così profondamente da aver concesso in questi anni alle destre la sola alternativa di un movimento «né di destra né di sinistra» come i Cinque stelle?

Quale che sia la risposta, tra queste e le molte altre in campo alla vigilia del voto del 25 settembre per tentare di spiegare la possibile, annunciata, vittoria del fronte destro capeggiato da Meloni, Salvini e Berlusconi, il punto di partenza per ogni analisi non può che essere un’istantanea delle forze in campo. Ed è questo il compito che si è dato Claudio Cerasa, quarantenne direttore del Foglio e già autore, tra le altre, di un’inchiesta sulla conquista del Campidoglio da parte di Gianni Alemanno nel 2008 (La presa di Roma, Bur, 2009) con Le catene della destra (Rizzoli, pp. 300, euro 18), un libro che intende «mettere in luce chi sono oggi i più pericolosi impostori della nostra democrazia, della nostra politica, della nostra libertà», che altro non sono che gli esponenti della destra oggi plasticamente riunita anche in una coalizione elettorale.

NON SI TRATTA DI UNO STUDIO punto per punto dei programmi o delle tesi di tali partiti e dei loro leader, quanto piuttosto di una sorta di itinerario attraverso quel mood fatto di delusione, populismo, rancore e complottismo che rappresenta il fondo di commercio di queste destre e nel quale il Paese sembra specchiarsi allegramente. Il tutto, concluso da un’autentica galleria degli orrori: le «foto di gruppo» dei protagonisti racchiuse in una carrellata di incredibili dichiarazioni di esponenti leghisti e postfascisti su Mussolini, Auschwitz, gli immigrati, il 25 aprile…

CIÒ CHE PERÒ PRENDE CORPO pagina dopo pagina nell’inchiesta di Cerasa non è tanto l’inquietante «straordinarietà» di prese di posizione dal sapore via via nostalgico, negazionista, apertamente razzista quando non chiaramente antisemita, anche se relegate perlopiù alle terze o quarte fila di ciascuno schieramento, quanto piuttosto la quotidianità distopica, frutto della narrazione tossica propria di tali forze, nella quale sembrano inserirsi.

E che, a ben vedere, le rende possibili malgrado la loro gravità. Che si tratti della pandemia, del numero e della presenza dei migranti, della «visione» della giustizia – «È lo scalpo, bellezza», il titolo decisamente azzeccato scelto dall’autore per il capitolo dedicato a tale tema -, o ancora, i giovani, le alleanze internazionali, dall’eurodestra di Le Pen e Orbán fino a Trump di cui si auspica un ritorno alla Casa Bianca, il complottismo sembra fare da filo conduttore tra quelle che a prima vista appaino come culture politiche non sempre convergenti. «Una volta individuato lo schema – suggerisce Cerasa -, l’azione di gioco, il meccanismo può essere usato per spiegare tutto e per individuare di volta in volta i nemici del popolo». La cronaca quotidiana come l’orizzonte «valoriale», ammesso che ne esista uno, si declina ricorrendo al medesimo vocabolario. Come del resto illustra anche il modo in cui viene analizzato quanto sta accadendo in Ucraina.

QUELLA CONDANNA della Russia «con un vigoroso “sì, ma”» che ha cercato di «cancellare dal dibattito pubblico una verità difficile da sostenere per chi per anni si è abbeverato con foga alle fonti del populismo». Il fatto che le azioni di Putin «non nascono in reazione a una provocatoria azione dell’Occidente (l’avvicinamento della Nato) ma nascono in relazione a un’azione deliberata perfettamente coerente con l’ideologia nazionalista imperialista mascherata da Grande guerra patriottica».