Nel 2017, le celebrazioni per il centocinquantesimo anniversario della Confederazione Canadese, datata 1 luglio 1867, hanno messo in crisi l’immagine di un Canada serenamente multiculturale, mosaico diverso e inclusivo raccontato soprattutto come contro-ambiente del calderone statunitense, divenuto specchio del mondo globalizzato.

ANCHE LETTERARIAMENTE, in effetti, il Canada resta un habitat unico, proprio per l’eterogeneità delle voci che, a partire dagli anni d’oro del Rinascimento Canadese – 1960-1980 – lo hanno, nel tempo, raccontato; ma quelle celebrazioni si sono trasformate in una inaspettata cartina di tornasole che ha rivelato come, la tanto ammirata idea di mosaico multiculturale, fosse, di fatto, il prodotto di una visione ancora profondamente eurocentrica dello spazio canadese.
Non è un caso se, oggi, stanno fiorendo importanti testimonianze letterarie di autori indigeni (ovvero i rappresentanti dei tre gruppi culturali che costituiscono la popolazione aborigena del Canada: Métis, Inuit e Prime Nazioni) molto critiche nei confronti dell’industria letteraria tradizionale. Le tante storie ormai definite «alterNative», narrate da autori come Alootook Ipellie (Inuit), Leanne Betasamosake Simpson (Nishnaabeg), Waubgeshig Rice (Anishinaabe) o Cherie Dimaline (Georgian Bay Métis Nation) hanno portato gli studiosi di letteratura a ripensare l’annosa questione della identità letteraria (e non) canadese, già considerata in continuo divenire anche a partire da una famosa frase pronunciata nel 1936 dal primo ministro William Lyon MacKenzie e citata in tutti i manuali di letteratura canadese: «se molte nazioni hanno troppa storia, noi abbiamo troppa geografia».

DIFFICILE RIEMPIRE uno spazio così vasto come quello del Canada e trasformarlo in un luogo. Oggi, le voci indigene indicano come quel vuoto fosse solo il riflesso dell’ignoranza dei colonizzatori e come la storia delle prime nazioni sia stata volutamente negata.
«Vorrei essere riconosciuta come autrice di storie indigene. Non sono un’autrice canadese. Quello che è conosciuto come Canada, per me vuol dire qualcosa di profondamente diverso», ha ricordato ancora nel 2018 Cherie Dimaline, autrice pluripremiata che ha innovato il genere «Young Adult», genere che sta diventando territorio privilegiato di storie indigene (molte quelle scritte da autrici Inuit, tra cui Rachel Qitsualik-Tinsley o Aviaq Johnston), dove le tradizionali storie di formazione dei giovani protagonisti si stanno trasformando in storie di formazione identitarie, fondendo il «fantasy» occidentale con l’alterità sciamanica dell’oralità nativa. Altro genere altrettanto fortunato è quello delle «graphic narratives», che nasce per fondere codici espressivi differenti e sembra particolarmente adatto a dare forma all’incontro tra tradizioni espressive diverse. Notevole, l’antologia This Place. 150 Years Retold (2019) che, attraverso dieci racconti scritti e illustrati da autori e disegnatori in prevalenza indigeni, propone storie di «resistenza e leadership» per condividere una nuova etica dell’essere canadese.
Allo stesso modo, in opere come As We Have Always Done (2017), o This Accident of Being Lost (2017), Leanne Betasamosake Simpson aggiorna la parola «resilienza» trasformandola in «risorgenza», termine col quale annuncia una forma di resistenza radicale che si avvale anche del poter della parola, in nuove forme letterarie.

NELLA SUA ULTIMA OPERA, Noopiming. The Cure for White Ladies (2020) l’oralità indigena si insinua così nelle pagine stampate portandosi dietro spazi pieni di silenzio (non mere pagine bianche, ma intervalli percettivi, luoghi di riflessione) e risuona attraverso neologismi che si collocano in una dimensione temporale nuova, già definita da Joseph Weiss, giovane antropologo culturale canadese, «il futuro perfetto». Ovvero un tempo grammaticale nel quale il futuro viene inquadrato come predeterminato – «questo è quello che sarà accaduto» (Shaping the Future on Haida Gwei): una dimensione olistica e ciclica che porta al continuo rimodellamento dell’ambiente e delle persone. E, naturalmente, delle storie che lo raccontano.

PROPRIO A PARTIRE da questa diversa percezione dell’essere individui e abitanti di un mondo mobile, gli autori indigeni del Canada stanno innovando generi mainstream, per esempio riscrivendo in modo diverso la crisi ecologica: interessante, ad esempio, l’appropriazione indigena del genere distopico, che descrive non solo e non tanto scenari apocalittici dove i pochi sopravvissuti sono in lotta tra loro, ma storie in cui la comunità risponde insieme al disastro, alle nuove sfide e ricerca soluzioni recuperando dal passato la capacità di immaginare il mondo in modo diverso, passando dalla competizione alla collaborazione.

NEL ROMANZO The Marrow Thieves di Dimaline (2017) nel mondo distrutto dal riscaldamento globale (già denunciato da Sheila Watt-Cloutier nel suo memoir The Right to Be Cold, 2015), gli Indigeni del Nord America sono inseguiti dai bianchi perché dal loro midollo possono ricavare un siero capace di restituire ciò che la comunità bianca ha perduto da tempo: la capacità di sognare insieme.
Allo stesso modo, nel suo romanzo d’esordio Moon of the Crusted Snow (2018) Waubgeshig Rice racconta uno scenario distopico in cui la «risorgenza» indigena porta una comunità a ritrovarsi per affrontare «quello che sarà accaduto»: i nativi rispondono alla crisi ambientale (un blackout energetico che porta al crollo delle infrastrutture alla base oggi delle nostre società «smart») recuperando il genius loci nativo, adattandolo al momento, ritrovandosi come comunità.
L’adattamento di un genere ormai tradizionale e popolare non viene utilizzato per suggerire nostalgie del mondo perduto. Gli autori indigeni sono consapevoli del fatto che la storia non si cambia, la si può solo ricordare in modo diverso, restituendo dignità ai sommersi, denunciando gli abusi, per esempio la vergogna delle Residential School diventate luoghi di prigionia e di abusi per bambini indigeni.
La sfida proposta dalla nuova letteratura nativa canadese propone così una nuova ecologia umana che non mette in competizione passato e presente, ma, di nuovo, li inscrive in un futuro in cui persone, tecnologia e mondo naturale fanno parte di un tutto che va risemantizzato, a partire da un riequilibrio etico fondato su rinnovate capacità di ascolto e storie che stanno riaffiorando.