Claudio Abbado si è spento nella sua casa di Bologna, dopo una lunga malattia che, alla fine, ha avuto ragione della sua fibra, ormai indebolita. Fino all’ultimo ha coltivato la speranza di dar vita a nuovi progetti, con la ferma convinzione che sarebbe riuscito ancora una volta a vincere la stanchezza e a salire sul podio. Esprimere la bellezza attraverso il dono della musica è sempre stata, per Abbado, una questione di civiltà, prima ancora che l’orizzonte naturale della sua esperienza di vita.

L’amore per la musica rappresentava infatti il perno dell’esistenza di Abbado, nato a Milano nel 1933 e cresciuto in una casa che ruotava in maniera virtuosa attorno all’attività del padre Michelangelo, violinista e professore al Conservatorio di Milano, e allo studio musicale dei figli, tutti destinati a lasciare un’impronta nella vita musicale, tranne il minore, Gabriele, divenuto architetto. Malgrado i disastri della guerra e le atrocità del regime, i genitori di Abbado riuscirono in maniera ammirevole a preservare l’humus artistico di famiglia e a instillare nel giovane Claudio la disciplina dello studio e il rispetto per il lavoro. Molto presto, quel ragazzo, allievo per la composizione di Giorgio Federico Ghedini e per la direzione d’orchestra di Antonino Votto al Conservatorio di Milano, cominciò a mostrarsi graziato da un carisma speciale. Subito gli si aprì la strada per Vienna, dove potè sviluppare il suo talento a contatto con artisti come Hans Swarowsky e Friedrich Gulda, in grado di trasmettere in maniera viva e diretta l’esperienza della grande tradizione musicale mitteleuropea.

Nel 1958, con sua stessa sorpresa, Abbado vinse il Concorso Koussevitsky a Tanglewood, in Massachusetts, e le porte per una carriera internazionale gli vennero dunque spalancate. La grande svolta tuttavia avvenne nel 1968, con la nomina a direttore musicale del Teatro alla Scala. L’arrivo di un artista molto giovane, insediato a soli trentacinque anni alla guida di un’istituzione così rappresentativa, rispecchiava il profondo terremoto che aveva attraversato la società italiana negli anni Sessanta. Era una rivoluzione culturale di portata storica, che avrebbe segnato l’inizio di una fase completamente nuova nel rapporto tra il Teatro e la città. Le premesse ideali della nomina di Abbado trovarono un ulteriore sviluppo quando, nel 1972, gli venne affiancato come sovrintendente Paolo Grassi, nomina che saldò le diverse anime della vita artistica milanese. A quel punto il palcoscenico della Scala si apriva finalmente alla grande cultura europea, portando a Milano titoli e autori conosciuti in precedenza soltanto da una ristretta cerchia di persone e rinnovando allo stesso tempo il repertorio tradizionale attraverso una nuova sintassi teatrale. Emblematico il lavoro su opere emarginate di Verdi come Macbeth, Don Carlo e soprattutto Simon Boccanegra, un «tavolo zoppo» che Abbado ha saputo riportare in vita per merito anche dello spettacolo memorabile di Giorgio Strehler, con l’immensa vela sullo sfondo del Palazzo Ducale a evocare la metafora dell’infinita avventura della vita.

Grazie a Abbado, un’intera generazione scopriva l’esistenza di mondi culturali ancora intatti, capaci di parlare al presente con la stessa forza espressiva del loro tempo. Il Wozzeck diretto alla Scala, nel 1971, in un vecchio spettacolo di Svoboda e rifatto nel 1977 con un nuovo allestimento di Ronconi e Gae Aulenti, aveva il significato, per il maestro, di un risarcimento per l’accoglienza indecorosa e volgare riservata dal pubblico milanese al capolavoro di Alban Berg nel 1952. Ma era solo l’inizio della riscoperta della Vienna modern di inizio Novecento, che Abbado sentiva così profondamente nelle sue fibre. Negli anni Settanta e Ottanta face conoscere a Milano le Sinfonie di Mahler e la grande musica del Novecento, promuovendo l’associazione dei musicisti della Scala in Orchestra Filarmonica autonoma, sulla falsariga del modello dei Wiener Philharmoniker, in maniera da sviluppare l’interesse dei professori per il repertorio sinfonico.

Abbado ha sempre amato lavorare con i grandi artisti. Non solo interpreti del calibro di Rudolf Serkin, Maurizio Pollini o Martha Argerich, ma anche artisti provenienti da esperienze di segno diverso. Il sodalizio con un architetto come Renzo Piano, un attore come Roberto Benigni o un regista cinematografico come Andrej Tarkovskij rappresentano solo una piccola parte dei numerosi esempi dell’interesse di Abbado per le idee che possono aiutare a migliorare l’offerta musicale. La grandezza di un artista si misura anche nella capacità di mettere il proprio ego al servizio della musica: Abbado sapeva pensare in grande, ma soprattutto sapeva ascoltare. La sua lezione di onestà artistica si sviluppò in maniera davvero eclatante quando venne eletto dai Berliner Philharmoniker direttore musicale, nel 1989, giusto l’anno della caduta del Muro. Berlino era una città che respirava all’improvviso, inebriata da una libertà culturale impensabile prima, e Abbado trovò il modo di sfruttare questa energia intellettuale spingendo l’orchestra di Karajan verso una metamorfosi artistica imprevedibile e vitale.

Per un’intera generazione di giovani Claudio Abbado è stato molto più che un grande artista e un mirabile direttore d’orchestra: è stato l’eroe di un mondo diverso e più giusto, nel quale l’arte e la cultura si suppongono al servizio dei valori più alti e non piegata a ornare aberrazioni ideologiche o a nascondere il carattere violento dei rapporti sociali. La grande campana di Andrej Rublev, che campeggiava nel Boris Godunov allestito a Londra con Tarkovskij nel 1983 e che Abbado ha poi voluto al centro della scena nel nuovo allestimento di Herbert Wernicke a Salisburgo nel 1994, rappresenta l’allegoria più autentica di questo rapporto indissolubile tra arte e vita. Ora che la campana di Rublev ha suonato anche per Abbado, tutti noi ci ritroviamo più soli e smarriti a vagare in un mondo che ci appare più ostile.