Roman Vlad è stato un uomo di frontiera. Un testimone del secolo passato che ha abitato, percorso, attraversato cento diversi confini: quelli che hanno separato, e separano tutt’ora, paesi, popoli, lingue, musiche, mestieri. Lo ha fatto con il passo pensoso del viandante, ma anche con l’energia instancabile di chi è abituato a battersi per le sue passioni. Lasciando sul terreno orme profonde, ben scolpite, che forse solo adesso, a cento anni esatti dalla sua nascita, riusciamo a riconoscere.

L’IMPRONTA più evidente che Vlad ha lasciato su questa terra, a beneficio di chi non ha mai conosciuto la sua voce, il suo sguardo, i suoi scritti, è quella dell’uomo di musica. Del compositore, innanzitutto, ma anche del musicografo prolifico, del divulgatore appassionato, dell’organizzatore militante. Anche dentro i confini del suo regno ha sempre camminato lungo il crinale tra due versanti opposti: quello della musica d’arte e quello della musica d’uso.
Per un verso, infatti, Vlad ha partecipato, con pienezza, entusiasmo e indipendenza di pensiero, alla stagione della Musica Nuova, quella che tra gli anni Cinquanta e gli anni Sessanta, ha mutato il volto della musica del nostro tempo. E nel dominio della musica d’arte ha adottato uno stile personalissimo, aforistico ed essenziale, nutrito però da una coscienza finissima del timbro. Stabilendo, nel prediletto alveo della voce, una relazione sempre intima, dialogante con i testi poetici, tradotti in un canto teso, vibrante, trasparente.
È stato un compositore straordinariamente «colto», dunque, conoscitore profondo della musica del Novecento, educato allo studio del metodo dodecafonico, eppure libero da qualsiasi koinè scolastica e convenzionale. Ma proprio la pratica della frontiera ha portato Vlad a misurarsi, costantemente, anche con i compromessi, e lo «specifico» della gebrauchmusik, la musica d’uso.
Sono più di cinquanta le colonne sonore che portano la sua firma. Tutte scritte con mano ferma, sicura, con una attitudine istintiva a reagire come un sismografo al ritmo e alla qualità delle immagini. Un lavoro artigianale, a tratti umile, sempre guidato da un principio di ferro: «Sono i registi – diceva – i veri autori delle colonne sonore: io mi limito a scrivere ciò che loro non sono in grado di fare». Non è un caso, dunque, che mezzo cinema italiano ed europeo abbia cercato con insistenza il suo aiuto: i registi che figurano nel suo palmarès sono, tra gli altri, Mario Soldati, René Clement, René Clair, Luciano Emmer, Renato Castellani, Mario Mattoli, Vittorio Gassman, Francesco Rosi, Riccardo Freda, Franco Zeffirelli. Una mappa fedele di mezzo secolo di cinema.

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I CONFINI DEL MESTIERE di compositore, tuttavia, sono sempre stati per lui, troppo angusti. Da questo punto di vista Vlad, nonostante la sua insopprimibile vocazione novecentesca, è stato un uomo dell’Ottocento. Con i compositori del secolo che lo ha preceduto ha infatti condiviso la pratica di quello che gli storici chiamano «attivismo musicale». La necessità cioè di muoversi sull’intero scacchiere dei mestieri della musica. Berlioz, Mendelssohn, Weber, Schumann, Mahler non si sono certo rinchiusi nella turris eburnea dell’artista distaccato dal mondo. Anzi si sono gettati nell’agone come lottatori. Hanno creato e diretto conservatori, riviste, teatri, società dei concerti. Sono stati insegnanti, critici musicali, storici della musica, direttori d’orchestra. Esattamente come ha fatto Vlad nei settant’anni della sua vita attiva.
La vocazione per l’impegno civile e per la militanza organizzativa lo hanno portato a occupare posizioni strategiche di rilievo nella mappa del potere musicale: ha diretto, in ruoli diversi, l’Accademia Filarmonica Romana, il Maggio Musicale Fiorentino, il Teatro alla Scala di Milano, l’Opera di Roma, l’Orchestra Sinfonica di Torino della Rai, la Siae. Portando spesso in dote la sua fantasia e la sua «cultura totale», come ad esempio nelle leggendarie, e discusse, edizioni del Maggio Fiorentino dedicate all’espressionismo e all’impegno civile.

LA PROPENSIONE, a volte onnivora, febbrile per l’attivismo musicale non poteva trascurare la musicografia. Che infatti Vlad ha praticato con la vena e l’attitudine dello scrittore. Una prosa esatta, mai viziata dal compiacimento, estranea alle astrattezze dello specialista, sempre attenta, al contrario, alla clarté del ragionamento e alla comprensibilità del pensiero. Il suo terreno prediletto è stato il Novecento: la sua monografia su Stravinskij, la sua lettura «rivoluzionaria» del Sacre, la sua storia della dodecafonia rimangono pilastri fondamentali nella evoluzione della musicologia italiana.
Lo stigma della frontiera non si imprime però soltanto nei mestieri e nelle professioni praticate da Roman Vlad. È anzi un marchio inscritto nel suo patrimonio genetico. Roman nasce infatti, il 29 dicembre del 1919, a Vaskauti, un piccolo centro a circa 40 chilometri da Czernowitz, antica capitale del ducato di Bucovìna, nella Romania settentrionale. Nel ’19 questa terra appartiene ancora all’Impero asburgico e solo l’anno successivo viene restituita alla Romania. Nel 1940 viene occupata dalle truppe sovietiche e l’anno dopo dall’esercito tedesco. E fino al 1989 rimane spaccata a metà tra la stessa Romania e l’Unione Sovietica.

UNA TERRA dai confini sempre incerti e mutevoli, dunque, segnata da una duplicità che si riflette anche nella formazione scolastica del giovane Vlad. Il padre lo vuole ingegnere e fino al 1938, quando attraversa definitivamente la frontiera del proprio nido natale e approda in Italia, Roman si divide tra gli studi scientifici e quelli musicali. Portando con sé una vera e propria passione per la matematica che non abbandonerà mai.
Ma il confine più profondo che Vlad ha attraversato di continuo, senza forse trovare mai pace, è quello che riguarda la motivazione «radicale» della sua pratica compositiva. «L’elemento fondamentale del mio essere creativo – scrive nella sua autobiografia, Vivere la musica (Einaudi) – consiste nella tragedia della esistenza umana, nella necessità di credere e nel dubbio che incrina la fede. Una gran parte della mia musica elabora continuamente questo dilaniante paradosso: (…) la ricerca di Dio nella impossibilità di trovarlo». Un’altra frontiera, dunque, quella tra il dubbio e la certezza, tra l’aspirazione alla fede e la sua dolorosa assenza.
A ben guardare questa perdurante, incancellabile duplicità, si può leggere, per finire, anche nella «maschera» di Vlad, nei suoi tratti apparentemente esteriori. Nella sua voce morbida, ma anche tagliente, che faceva emergere a tratti una lingua madre diversa dall’italiano, nel suo volto scavato, scolpito, dai tratti decisi, che l’età aveva appena reso più fragili, si notavano soltanto l’uomo pubblico, il retore affabile, l’oratore sapiente.

MA A UNO SGUARDO più attento – come ha detto in una intervista recente Licia Borrelli, sua compagna di vita per sessant’anni – emergeva «una leggera assenza, o meglio una parziale presenza nelle cose che faceva». Forse per quella «ricorrente sofferenza dovuta al fatto che pensava di essere un compositore, mentre lo hanno sempre apprezzato per tutt’altro».
Un’ultima linea di frontiera nella quale appare, forse, l’ombra di un rimpianto: l’unico modo per convertirlo in un atto di giustizia è far sì che le musiche di Vlad, a cent’anni dalla sua nascita e a sei dalla sua scomparsa, continuino a vivere anche in questo e nel prossimo secolo.