Per Beckett, la tecnica del fold-in usata da Burroughs non era che «plumbing», un lavoretto da idraulici. Gli sembrava inconcepibile che si potesse riusare ciò che avevano scritto altri. Convinto che Burroughs ricorresse a questo metodo in cerca di risposte, gli disse scuotendo la testa: «Non ci sono risposte!». E ancora: «Siamo completamente disperati! Completamente! Non riusciamo neanche a parlare con gli altri. È questo che ho provato leggendo Pasto nudo, ed è per questo che mi è piaciuto». A differenza di quanto accade negli altri volumi della tetralogia Nova – il ciclo di romanzi distopici in cui Burroughs ha tracciato la mappa di «un universo immaginario, nero di galassie ferite e complotti, dove l’oscenità è usata come arma totale» – in Pasto nudo il ricorso sia al fold-in sia al cut-up è ancora limitato.

Inoltre, una risposta lo scrittore americano sembra trarla dalla sua esperienza: a Joseph Barry, che intervistandolo a Parigi nel 1963 per il «New York Post» gli chiedeva se all’epoca di Pasto Nudo si drogasse, aveva risposto: «Se mi fossi fatto, non sarei mai riuscito a scriverlo. La droga smorza fisiologicamente l’intero processo creativo». Non a caso, dunque, alla fine del Pasto, rivolgendosi ai Bambini Antalgici di tutto il mondo, scrive: «Guardate bene lungo la strada della droga prima di avventurarvici…».

In moto verso l’esterno
Ora, questi fili sono meglio ricostruibili anche per il lettore italiano grazie alla pubblicazione del consistente e ben documentato volume uscito dal Saggiatore con il titolo Interviste (a cura di Sylvère Lotringer, traduzione di Silvia Albesano e Alessandro D’Onofrio, pp. 1239, euro 65.00), che riunisce conversazioni con William Burroughs uscite tra il 1960 e il 1996. Per scrivere il suo ritratto all’acido fenico dell’America degli anni Cinquanta – un Paese schiavo dell’«algebra del bisogno», una radicata forma di dipendenza alimentata dal potere –, Burroughs smette di bucarsi. Dice di farlo dopo avere deciso di vedere oltre se stesso. Ed è a questo punto che gli riesce di mettere a fuoco la differenza tra sé e lo scrittore irlandese: «Beckett vuole andare verso l’interno. Prima era in una bottiglia e adesso è nel fango. Io punto nella direzione opposta: all’esterno».

Molte sono le domande che gli intervistatori gli rivolgono sulla tecnica del cut-up appresa da Brion Gysin, e a tutti Burroughs spiega con pazienza come lavora, mostrando i suoi faldoni pieni di materiali. Tuttavia, più di ogni altra cosa gli interessa ricordare che i suoi «sono personaggi clowneschi, artisti del raggiro in un mondo di imbroglioni»: Mary McCarthy se ne era accorta, e aveva non a caso sottolineato la componente circense del mondo di Burroughs, che di quel giudizio andava fiero. Per sottrarsi all’angoscia della «carne spaventata, cauta, che invecchia», trasferisce questi elementi in ambito interplanetario, «artisti che imbrogliano in termini di spazio e non di tempo». La sola via di fuga sta, per Burroughs, nell’uscire dal tempo ed entrare nello spazio, perché il tempo è il corpo e ha una fine. Entrare nello spazio, invece, «è la sola forma di immortalità che possiamo raggiungere».

Quando gli vengono poste questioni sulle quali è troppe volte tornato, mostra scarsa pazienza: con Timothy Leary, che lo interroga sulla sua espressione, «il linguaggio è un virus» – frase peraltro citata in modo impreciso, perché Burroughs nei suoi libri, da Minutes to go a il Biglietto che esplose fino al saggio del 1970 The Electronic Revolution, non parla di linguaggio bensì di parola – taglia corto: «Il linguaggio è ovviamente un virus e dipende dalla replica. Quali altri gravosi argomenti ci attendono?». Anche con chi come Eldon Garnet, direttore della rivista «Impulse», gli fa domande sul sesso, risulta al tempo stesso disincantato e tranchant: «Il sesso e l’amore, o come lo chiamano, richiedono un certo grado di autoinganno».

Dalle risposte che via via si leggono in queste pagine, Burroughs viene fuori non meno riconoscibile che nelle sue fotografie: stretto nel cappotto di tweed con il colletto di velluto tutto liso, sempre un po’ formale e distaccato, con un sorriso che pare «indotto dal succo di sei limoni». Ancora più smunto, quasi disincarnato con il passare degli anni, mostra una predilezione per le camicie color carne. Ironico e al tempo stesso misantropo, tiene a precisare – nel corso di una autointervista – quel che pensa della specie umana: «La parola più esatta nella vostra spazzatura verbale è disgusto». Poi afferma perentorio che gli amici non esistono, ci sono solo alleati e complici: dice di averlo scoperto «dopo l’incidente», quando in uno spartano appartamento del quartiere Roma di Città del Messico, mentre controllava un revolver, partì il colpo che uccise sua moglie Joan Vollmer. Era il 1952, dopo la tragedia se ne andò in Sudamerica alla ricerca del più potente fra gli allucinogeni, lo yage, avviando così il suo viaggio in fondo alla notte.

Con il passare degli anni, questo scrittore che Kerouac descrisse come un «esploratore di uomini e città», si fece sempre più laconico, e l’amico Ginsberg – che dialoga con lui in più di una intervista – ne parlò come di «un Raskol’nikov in cerca di tutte le cose che non si dovrebbero fare». Poco loquace – «Non mi va di parlare e non mi vanno i chiacchieroni» – si dimostra facilmente travolto dalla torrenzialità di David Bowie e di Patti Smith, i cui monologhi ininterrotti lo zittiscono: li aveva incontrati per porre loro delle domande, ma entrambi si dimostrarono, per lui, fin troppo generosi nel parlare di sé: forse perciò, o forse per timore reverenziale, riuscì a biascicare con loro solo qualche ovvietà. Ma proprio a Bowie si deve una delle definizioni più empatiche di quel che Burroughs produsse con la scrittura: «È una casa delle meraviglie – dice – piena di forme e colori strani, di gusti, sensazioni».

L’autore di Pasto nudo parla poco anche degli scrittori che ammira, spesso li liquida con poche, essenziali parole: Fitzgerald «è tutto nella prosa», Jane Bowles sapeva «scrivere una frase che nessun altro avrebbe mai potuto scrivere», Carson McCullers era semplicemente «molto brava», e così via, poco prodigo di aggettivi, ma sicuro sul fatto che a influenzarlo nello stile fu soprattutto Denton Welch – «Non tutti gli scrittori reggono bene alle riletture. Lui sì» – uno dei pochi a strappargli un complimento convinto.

E’ il genio a possedere te
D’altronde, anche da queste interviste è chiaro come a Burroughs non piacesse attardarsi sull’esercizio della scrittura: «Per certi versi è meglio parlare delle proprie abitudini sessuali più intime, sai…» dice a Tennessee Williams. Dei corsi di lettura creativa, che pure accettò di tenere, pensava servissero, fondamentalmente, per far comprendere «come si arriva a capire se lo scrittore si sta comportando onestamente con il lettore». E solo verso la fine della vita, dopo avere cominciato a dipingere, riuscì a formulare in modo più preciso il suo ambivalente rapporto con il mestiere che aveva scelto: «Non puoi evitare di sapere quello che stai per scrivere. Ma con un quadro non ne sei cosciente, vedi attraverso le tue mani».

Norman Mailer disse di Burroughs che era l’unico romanziere americano al quale fosse plausibile attribuire una qualche genialità. E lui, ingrato: «Le persone non sono dei geni, sono possedute dal genio. Non lo possiedi, è lui a possedere te».