La mattina del 5 marzo 1982 era estremamente tranquilla ai bordi della piscina di un albergo di West Hollywood: a mezzogiorno, pochi clienti erano sdraiati, sonnecchianti, a prendere il sole, e quasi non avevano notato il passaggio, nel giardino poco lontano dall’acqua, di un uomo con una macchina da scrivere sotto il braccio, evento non molto bizzarro in un luogo spesso scelto come buen retiro da sceneggiatori, giornalisti e romanzieri. Allo stesso modo, era stata degna di scarsa attenzione, poco dopo, la rapida comparsa sulle sue orme di un secondo individuo dall’aria trafelata, in giacca e cravatta. Non molto più tardi, però, era stato difficile non notare una serie di paramedici che si affrettavano nel giardino, seguiti da alcuni poliziotti. Un cliente si era alzato dalla sdraio per capire dove fossero diretti, e aveva visto che si facevano strada verso una delle depéndance distribuite nell’area attorno all’albergo; e spostandosi verso i margini del giardino, attratto da un brusio crescente e anomalo, si era accorto che fuori dalla proprietà si stavano radunando paparazzi e furgoni della Tv. Quel cliente allora doveva essere andato alla reception per chiedere cosa fosse successo, e si era sentito rispondere con tono imbarazzato: «C’è stato un piccolo contrattempo».

Quel contrattempo sarebbe stato ricordato negli anni come uno degli eventi più drammatici nella storia di Hollywood: la morte per overdose di John Belushi. Era stato il suo assistente/allenatore/guardia del corpo (l’uomo con la macchina da scrivere) ad accorgersene, e sùbito aveva chiamato il manager dell’attore (l’uomo trafelato in giacca e cravatta), prima ancora dei soccorsi e della polizia. Belushi, all’apice del successo solo pochi anni prima con gli sketch del Saturday Night Live, i film Animal House (1978) e The Blues Brothers (’80) di John Landis e ora già sul viale del tramonto dopo un paio di fiaschi, aveva scelto come base per affrontare la sua riscossa un luogo che era stato il nido per molti talenti del cinema sin dai tempi della golden age hollywoodiana: un luogo apprezzato tanto per una sorta di genius loci che sembrava favorire l’estro e il successo dei suoi ospiti, quanto per una gestione discreta che permetteva loro di assecondare vizi o inclinazioni non sempre opportuni da mostrare in pubblico.

Quel luogo era l’hotel Chateau Marmont, un ibrido architettonico che nella mente del suo costruttore doveva trovare il proprio modello ideale in un territorio da favola compreso tra l’Italia e la valle della Loira, e che era atterrato come una navicella aliena su una collinetta che dominava la Sunset Strip. La triste fine di Belushi avrebbe proiettato l’albergo nell’immaginario collettivo e nella leggenda di Hollywood, decretando però allo stesso tempo la fine dell’incantesimo che lo preservava come un’oasi di privacy e creatività. Quell’incantesimo aveva dominato buona parte della sua storia, iniziata a metà degli anni venti, quando a Los Angeles «se si partiva in automobile dal centro, si approdava nel giro di mezz’ora a un punto in cui finiva l’asfalto e iniziavano le mulattiere»: una storia ora raccontata con talento narrativo, ironia e gusto per l’aneddoto dal critico cinematografico Shawn Levy in Il castello di Sunset Boulevard (EDT «La Biblioteca di Ulisse», traduzione dall’inglese di Anna Lovisolo, pp. XX-398, € 24,00).

La fantasia di Horowitz
Il libro si apre con la visione di un terreno di erbacce ai margini di una strada sterrata, con sullo sfondo qualche rara fattoria: lì il Sunset Boulevard si incontrava con la strada che percorreva il Laurel Canyon in direzione nord, e lì un avvocato del centro di Los Angeles, Fred Horowitz, aveva immaginato di veder sorgere un castello modellato in larga parte su quello di Amboise. Era d’altronde un’epoca in cui l’architettura nel sud della California sembrava fare a gara con il cinema nel tentativo di replicare fantasiosamente il resto del mondo; meno di una ventina d’anni più tardi, nella furia apocalittica del suo capolavoro Il giorno della locusta, Nathanael West avrebbe scritto: «Solo la dinamite sarebbe stata di qualche utilità contro i ranch messicani, le capanne polinesiane, le ville mediterranee, i templi egiziani e giapponesi, gli châlets svizzeri, i cottages scozzesi, e tutte le possibili combinazioni di questi stili che si allineavano lungo le pendici del canyon». Se la fantasia di Horowitz era cinematografica, i suoi intenti erano invece molto pragmatici: voleva trasformare il castello dei suoi sogni in un condominio di lusso, marginando sulla vendita degli appartamenti. Ma nel 1929, una volta eretto, lo Chateau – nel frattempo battezzato Marmont dal cognome del divo inglese del muto a cui era intitolata la stradina che si dipartiva dal Boulevard e dove era affacciato l’ingresso dell’edificio – si rivelò un investimento poco profittevole, complice soprattutto il crollo di Wall Street e la conseguente crisi economica. Sarebbe rientrato in carreggiata pochi anni dopo, nel 1932, con la vendita ad Albert L. Smith, uno dei produttori più importanti degli anni dieci (decisivo nel far decollare le carriere di star come Rodolfo Valentino) prima di arrendersi davanti all’irresistibile ascesa dei fratelli Warner. L’ex produttore intuì che la potenzialità dello Chateau era quella di diventare il rifugio per chi passava o arrivava in California (molto spesso dalla East Coast o addirittura dall’Europa) in cerca del proprio posto nel sogno hollywoodiano: non a caso, mise ad amministrarlo un’ex attrice dell’epoca del muto da poco uscita di scena, Ann Little, che capiva e interpretava alla perfezione i desiderata di ospiti che venivano dal suo stesso milieu. Billy Wilder, di casa al Marmont a più riprese, non esitò ad affermare che proprio Little «era il motivo per cui l’albergo è diventato quello che è».

Un’altra intuizione notevole di Smith fu quella di acquistare un lotto a est dell’hotel in cui sorgevano villini a due piani che, una volta ristrutturati, sarebbero diventati quei bungalow amati dalla clientela più desiderosa di privacy, «un rifugio dentro un mondo già di per sé segreto». Se infatti doveva essere trovata una peculiarità allo Chateau, era proprio quella di nascondere invece che esibire, e questo lo rendeva appetibile in un ambiente in cui c’erano alberghi come il Garden of Allah o il Beverly Hills Hotel che facevano esplicitamente vanto delle eccentricità dei propri ospiti.

«Gioventù bruciata», in un bungalow
Questa peculiarità, voluta da Smith e Little, fu preservata dal successivo proprietario, Erwin Brettauer, che aggiunse all’idea di discrezione propria del Marmont un significato in più. Discendente di una dinastia di banchieri di origine ebraica, finanziatore di film tra Europa e Stati Uniti, Brettauer era sfuggito all’odio nazista e aveva improntato la sua gestione a un’intransigente tolleranza. Con lui, scrive Levy, «lo Chateau era ben più che un nascondiglio: era un luogo protetto». E così sarebbe stato per tutto il suo «regno», dal 1942 al 1963, per ospiti che non avrebbero mai dovuto temere nulla, tra le mura dell’albergo, per i propri gusti sessuali, le abitudini di vita o il colore della pelle: Brettauer arrivò addirittura a tenere testa al miliardario Howard Hughes, irritato dalla presenza di personale di colore; ma anche il razzista Hughes dovette adeguarsi alla politica del Marmont perché, in fondo, gli faceva comodo la sua riservatezza: nella suite che teneva sempre prenotata, poteva dare sfogo tanto alle scappatelle sessuali quanto alle bizzarrie che si sarebbero rivelate più avanti i sintomi di una vera e propria malattia mentale.

Fortunatamente, gli anni di Brettauer sarebbero rimasti legati a ospiti più meritevoli di Hughes di essere ricordati: il regista Nicholas Ray, che mentre abitava in uno dei bungalow conobbe James Dean e concepì Gioventù bruciata (1955); buona parte delle generazioni di attori newyorkesi devoti al Metodo di Lee Strasberg, tra cui ad esempio Paul Newman e Joanne Woodward, che al Marmont vivevano come una coppia già prima del matrimonio (all’epoca Newman era ancora sposato con la prima moglie) e frequentavano di preferenza Gore Vidal e il compagno Howard Austen. Vidal, tra l’altro, avrebbe fatto del Marmont la residenza del suo personaggio per l’epoca più scandaloso, la transessuale Myra Breckinridge, protagonista dell’omonimo romanzo del 1968.

Tra la fine della libertaria èra Brettauer e la morte di Belushi si sarebbero succeduti ospiti altrettanto memorabili (tra cui, solo per citarne alcuni, Anthony Perkins, Jim Morrison, Eve Babitz) e un’alternanza di proprietari non sempre innamorati dell’albergo. L’avrebbero riportato ai fasti di un tempo prima Ray Sarlot e poi André Balazs, quest’ultimo però rendendolo un luogo esclusivo, non più alla portata delle tasche di talenti emergenti o ancora sulla strada della consacrazione. Nel 2004, Sofia Coppola ebbe da Balazs la rara autorizzazione a girare il suo film Somewhere negli ambienti dell’albergo. Nelle scene finali, al protagonista, l’attore Johnny Marco (Stepehen Dorff) in procinto di lasciare l’hotel dopo esserci vissuto a lungo, il concierge chiede: «Mettiamo le sue cose in deposito fino al suo ritorno?». Marco non tornerà, ma molti degli artisti che hanno ispirato la sua figura e che sono transitati nei decenni per le stanze dell’albergo nutrendosi della sua aura, devono aver pensato, davanti a una domanda del genere: «lo Chateau Marmont è una casa che non si lascia davvero mai».