Un tè al cardamomo nello studio di Naiza H Khan (Bahawalpur, Pakistan, 1968, vive tra Karachi e Londra). In questo ambiente luminoso all’interno dell’abitazione in cui l’artista vive con la famiglia c’è traccia di tutto il suo percorso: dal torchio calcografico ai busti-armature di acciaio galvanizzato, dalle fotografie ai bozzetti, dagli schizzi ai pennelli, alla tavolozza con i colori ad olio. Su una delle pareti è appesa la grande tela The Streets are Rising (2012-2013), mentre sul cavalletto un piccolo dipinto su tela di lino (della serie Dwelling) deve essere ancora finito. È tra i nuovi lavori – esposti anche nella personale appena conclusasi Undoing / Ongoing (Rossi & Rossi, a Londra) – realizzati con tecniche e materiali diversi: olio, acquarello, acquaforte, ottone.

DSC_0090 - Karachi - studio di Naiza H Khan (foto Manuela  De Leonardis)
Nell’atelier dell’artista Naiza H Khan (foto Manuela De Leonardis)

Opere con cui Khan esplora il paesaggio urbano di Karachi con tutti i suoi contrasti: rovine, cantieri edili, spazi pubblici e oggetti trovati che entrano nella visione della megalopoli interpretata come organismo pulsante, sospeso tra modernizzazione e decadenza. «Mi lascio condurre dall’intuito. Non pianifico troppo. Le cose succedono sulla tela – spiega Naiza H Khan – C’è anche l’idea di ‘colare la città’ nell’ottone. Queste opere sono mappe, frammenti di terra che parlano di dislocazione. Una sorta di geografia definita dagli oggetti stessi, uniti tra loro per mezzo di pezzi di ponteggi, visibili ovunque in giro per la città». Anche nelle precedenti «armature-lingerie» (2007-2008), esposte in numerose mostre internazionali (tra cui la XV Biennale Donna di Ferrara), agli oggetti era demandato il ruolo di ambigui testimoni di situazioni conflittuali che, in quel caso, erano focalizzati sul corpo femminile nella sua relazione con lo spazio.

Naiza H Khan, The Streets are Rising,  2012-2013 (courtesy  The Artist and Rossi & Rossi, London)
The Streets are Rising, 2012-2013 (courtesy The Artist and Rossi & Rossi, London)

Karachi è sempre presente nella sua visione, soprattutto nei lavori più recenti…
A partire dal 2007, quando ho iniziato a frequentare l’isola di Manora, c’è stato un vero e proprio cambiamento nel mio lavoro. La distanza mi ha permesso di guardare con distacco la città perché, standoci dentro, non la si può ripensare. È troppo presente. Così, attraversando semplicemente l’acqua – il porto di Karachi è a solo venti minuti di barca da Manora – posso guardare le cose in modo più critico. Manora, poi, è piena di palazzi interessanti, vecchi e nuovi, ma la cosa più bella è che è facile passeggiare nell’isola, mentre Karachi non è affatto un posto dove si possa girare tranquillamente. In un certo senso, siamo ghettizzati, abitando in aree residenziali dove abbiamo bisogno di un guardiano. Lentamente andiamo fortificando le nostre dimore, cosa che divide moltissimo la città. Ci sono conflitti e violenze anche per questioni etniche. Ma problemi come questi non sono solo nostri, appartengono alla maggior parte delle zone suburbane, come ho potuto constatare leggendo il libro City of God che parla della realtà brasiliana. Ma ogni parola, ogni frase in ogni pagina mi riportava a Karachi.
Quando nel 2008-2009 ho cominciato ad andare più frequentemente a Manora, stavo ancora realizzando le «armature». Ho sentito che dovevo guardare dentro di me, iniziando a riflettere su quello che stava succedendo. Ho scattato molte fotografie e girato brevi video sull’isola. C’è una tea house dove mi siedo per guardare l’oceano: ogni volta che ci vado, mi siedo e scrivo. Attualmente, il lavoro è basato proprio sui testi. Disegni che sono principalmente risposte. Come rispondere a qualcosa? Disegnare partendo da una fotografia è una pratica differente, che scarta da ciò che sto vivendo al momento. Se disegno qualcosa per due settimane, giorno dopo giorno, sarà sempre diverso, perché io stessa lo sono. Anche la luce è variabile. Il valore di tale lavoro è incomparabile, soprattutto rispetto all’intellettualizzazione e mediazione della fotografia o di altri mezzi. Dopo aver scritto, disegnato, fotografato torno nel mio studio a dipingere, osservando le diverse cose che spuntano nel paesaggio. Non c’è più un’orizzontalità o verticalità, il lavoro va in tutte le direzioni.

C’è anche un altro elemento che affiora, il tempo…
Sì, effettivamente è molto importante il senso del tempo. Penso che quest’ultimo progetto sia particolarmente connesso alla sensazione di lentezza. Un dialogo che cresce tra il lavoro, me stessa, il luogo. Posso tornare a Manora ancora e ancora. Ogni volta documento qualcosa attraverso il mio sguardo, non necessariamente in una chiave di testimonianza oggettiva. Lo faccio sempre dallo stesso punto, così da poter vedere come cambiano nel tempo le strutture degli edifici, anche in risposta alle situazioni sociali che li circondano. Il tempio indù – presente anche in Between the Temple and the Playground (2011), un dipinto a olio di oltre due metri – aveva all’interno delle bellissime piastrelle che sono state divelte. Lo scorso anno i templi indù sono stati vandalizzati e la comunità non possiede armi da fuoco per proteggerli. Per realizzare questo primo dipinto c’è voluto un anno di lavoro. Non è un paesaggio lineare. La linea dell’orizzonte, che è molto in alto nel cielo, fa da bilanciamento creando lo spostamento tra le immagini. Continuo sempre a tornare su questo dipinto, perché mi dà le risposte che, tante volte, mi pongo nel mio lavoro. È una fonte per me.

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Naiza H Khan

Le «armature» segnano una fase importante della sua produzione: può raccontarci come nascono quelle sculture speciali?
Penso che il lavoro delle armature sia iniziato all’interno della pratica del disegno, con cui avevo cominciato a riflettere sul corpo. I miei disegni erano molto coerenti, hanno tracciato un percorso, segnando una mappatura. Anche l’idea si è evoluta attraverso il disegno. Ho sentito che dalla semplice relazione tra la modella, il mio studio e me, in quanto artista – il triangolo tradizionale che si rintraccia in molte pratiche artistiche – lentamente è cresciuta l’idea del corpo e dello spazio, che ho analizzato criticamente. Sono convinta che non esistiamo nell’isolamento. Lo spazio intorno a me non è solo il mio studio, ma anche l’idea di come viviamo in un grande spazio pubblico e di come il nostro corpo interagisce con la società. Questa riflessione è diventata qualcosa di più complesso, come pure la relazione tra atelier, modella e disegno accademico del corpo, concettualizzato in uno spazio diverso, all’interno di altri contesti sociali, ma rimanendo allo stesso tempo a un livello personale, autobiografico e privato.

Dopo dieci anni, però, ho capito che dovevo iniziare a pensare al corpo in un modo più «costruttivo». Per costruttivo intendo dal punto di vista narrativo. Ho creato delle messe in scena teatrali che coinvolgessero altri oggetti: indumenti, lingerie, tutti presenti nei disegni, perciò anche nel mio studio, che in un certo senso sono diventati «oggetti di scena», diventando assai più importanti del corpo stesso. Queste «truppe» hanno iniziato a parlare più intensamente di come il corpo è percepito, malinteso e di come io stessa volevo giocarci. Nel 2007-2008 le immagini dei corsetti e delle lingerie sono entrate nel mio primo lavoro, Bulletproof Vest (giubbotto antiproiettile). Nel disegno c’è una sottoveste molto fragile, come di seta, ma che allo stesso tempo presenta dei buchi. Ho pensato che fosse una contraddizione e mi sono chiesta come avrei potuto materializzare quell’idea, quella sensazione di qualcosa di molto leggero e vulnerabile, come pure la sua fisicità in quanto oggetto.
Così ho cominciato a lavorare con il metallo, sperimentando, prendendo le impronte sul corpo della modella per poi realizzare lo stampo di lattice. Per la verità queste opere non funzionarono bene, ma li ho considerati interessanti all’interno del processo. Solo dopo è arrivato il metallo. Modellare il metallo e materiali diversi mi ha fatto ragionare immediatamente sulle possibilità che si sprigionavano, a come si sarebbero potute evolvere espressivamente. Nei successivi tre anni quei disegni sono diventati oggetti, sono nate le armature d’acciaio, le cinture di castità, le zip. La fisicità stessa di questi oggetti pone lo spettatore in una condizione in cui, nel momento in cui gli si parano davanti, non può negarne la forza.

Riflettere sul corpo femminile è stato anche un modo per parlare della condizione della donna nel suo paese. Non è così?
È facile leggere il lavoro in questa chiave. In Pakistan, lei stessa avrà avuto modo di vedere che ci sono donne molto diverse. Esistono privilegi e problemi. Come artista non desidero, in realtà, proporre un manifesto sulla condizione femminile. Non per questo mi lasciano indifferente i numerosi incidenti che avvengono al giorno d’oggi intorno a noi, coinvolgendo donne di ogni classe sociale: i giornali sono pieni di queste notizie. Ne sono testimone, mi sento empaticamente vicina, ma avverto che è un grande problema per me avere un’etichetta del genere: è lo stereotipo con cui l’occidente guarda al mio lavoro artistico. Sarebbe veramente troppo facile e conveniente leggerlo in questi termini. Non sarebbe che un «tappeto volante» con cui volerei molto in alto. Eppure non è questa la mia esigenza. Che significa che sono un’artista pakistana? Sono un’artista e basta. Quello che è veramente importante è il momento in cui nasce l’idea, la specificità stessa di quel momento, che spinge gli artisti a impegnarsi per anni in una certa direzione. Quella scintilla può accendersi ovunque, in qualsiasi geografia e contesto culturale.