Le premiazioni alla mostra del nuovo cinema di Pesaro non sono mai state proprio il cuore della manifestazione rispetto all’importanza delle opere programmate, degli incontri. Soprattutto quest’anno che si sono voluti ricordare con proiezioni speciale i cinquant’anni della mostra appena conclusa – però ricordiamo che la prima volta di un premio assegnato a Pesaro è stato per Silvano Agosti, che abbiamo rivisto giovinetto, in un’attualità del Luce, ritirarlo nel ’67 per Il giardino delle delizie. Il bel documentario Moviextra speciale Pesaro firmato da Cristina Torelli, Paolo Luciani e Roberto Torelli ha ripercorso con i materiali di vari anni e interviste realizzate per l’occasione gli incredibili fasti di questa manifestazione realizzata contro i tappeti rossi, lavoro culturale accumulato anno dopo anno, un’histoire du cinéma tutta particolare. Nel film la ripercorriamo: Godard afferma che siamo in ritardo rispetto al cinema muto, Rocha che il cinema industriale è cosa morta, Bellocchio che «non ci dobbiamo fare illusioni rispetto alla situazione attuale» (era il ’68). Sequenze che lasciano senza fiato: lì si organizzava il cinema indipendente, lì si «sballavano» i criteri della critica» come afferma Alberto Grifi alla soglia dei suoi trent’anni capace di fare le sue zavattinate, come realizzate film con pochi soldi, Duras che indica la strada del cinema («non c’è bisogno di riprendere solo gli operai, ci sono centinaia di modi per riprendere un volto in modo rivoluzionario»), lo stupore di Blasetti e Camerini per essere stati invitati al «cinema nuovo». «Pesaro, affermava Micciché, è un granello di sabbia nella censura di mercato», ma intanto per la prima volta si invitavano gli studenti universitari, anche a collaborare, si sottotitolavano i film. Ogni intervento scelto è una finestra di un modo di intendere il cinema, nella sua storia e nel suo impianto critico (con la più sterminata produzione di volumi prodotti), nell’organizzazione messa in moto, come quella dei registi latinoamericani che solo qui potevano incontrarsi e creare tutto un movimento come nota proprio quando iniziava, Tomàs Gutierrez Alea di cui abbiamo potuto rivedere proprio in questi giorni Memorias del subdesarrollo (’68) magico come fosse stato uscito in sala il giorno prima, soprattutto ricco di scarse affermazioni, e di decise soluzioni sceniche. Insieme a lui in quegli anni c’erano tutti i grandi (Rocha, Solanas, il boliviano Sanjinès) e Raul Ruiz in esilio che parla dell’interruzione a causa della dittatura del cinema cileno «questa testa senza corpo», colto in una riflessione sulla diaspora degli esiliati, come se avesse una rapida visione del futuro (a chi sarebbe indirizzato un cinema compreso solo dai cileni?). Amico di Pesaro è sempre stato Bernardo Bertolucci che indica la nuova strada del cinema nuovo: il telefilm americano, con l’analisi estetica di Breaking Bad.
La giuria (Maria de Medeiros, Francesca Marciano, Silvio Danese, Daniele Vicari) ha assegnato il «premio Lino Micciché» al film indiano Liar’s Dice esordio della regista Geethu Mohandas, denuncia sociale che prende spunto dal viaggio di una giovane madre partita da un remoto villaggio alla ricerca del marito che non ha dato più notizie di sé. Menzione speciale per il colombiano Terra en la lengua di Rubén Mendoza, storia dagli spunti letterari di un feroce patriarca che si inoltra verso i suoi possedimenti e verso la fine della sua vita (premiato anche dai giovani).
È stato premiato da Amnesty international lo sconvolgente Mamma io ti ucciderò della regista russa Elena Pogrebizhskaja. Non solo piomba come fosse in missione speciale in un orfanotrofio dove emerge tutta la scempiaggine della burocrazia che, cambiano le epoche, ma resta immutata, per mostrare bambini dall’umanità e dolore sconfinati, regolamenti che li qualificano come disadattati in quanto orfani, al di sotto della normalità, spediti in manicomio come altri individui considerati poco normali, i dissidenti, storditi a lungo con medicinali. Il filone è già stato percorso da qualche cineasta sovietico avanzato come Sergei Bodrov in La libertà è il paradiso, dell’’89, fino al film censurato del 2013 di Olga Sinjaeva. In parecchie repubbliche sovietiche il problema era stato sottolineato dalle cineaste che abbiamo incontrato anche prima dell’89 (Lituane, Estoni, Russe), uno spropositato numero di bambini abbandonati per le guerre e l’alcolismo (nella sola Russia se ne contano più di 700 mila). La regista è riuscita non solo a realizzare un’opera di incredibile forza, ma anche a far cambiare la legge. Ed ora con il prossimo film punta anche a ribaltare la legge sulla violenza contro le donne.