Scritto da Vladimir Jankélévitch sul finire degli anni ’50, Il puro e l’impuro (a cura di Enrica Lisciani Petrini, Einaudi, pp. 231, euro 22, 00) è una requisitoria contro l’ideologia della purezza – metafisica, ontologica, politica, psicologica, morale – e insieme una difesa appassionata della purezza di cuore di chi non si illude di potersi esimere dall’impurità, ma agisce all’interno di tutte le «impure» contraddizioni quotidiane animato da un’intenzione buona. «L’azione ci restituisce l’innocenza. È l’azione innocente che contrasta la stupida inclinazione della coscienza a pavoneggiarsi, a chiudere il cerchio e ad arrotondarsi nella soddisfazione di essere pura».

È un libro sull’innocenza, nella consapevolezza che l’innocenza è sempre già perduta, non tanto nel momento in cui ci si riconosce colpevoli, quanto proprio nel momento stesso in cui ci si riconosce innocenti. Come scrive nel suo saggio introduttivo Enrica Lisciani Petrini, questo è un libro semplice e insieme straordinariamente complesso. Per arrivare al cuore del libro, allora, conviene fare un breve détour nei paraggi di una nozione sempre centralissima in tutti i libri di Jankélévitch, e che gioca un ruolo cardine anche in questo.

Che in alcune nostre esperienze si dia qualcosa di essenziale, che «fa la differenza», ma che non siamo tuttavia in grado di dire, il latino lo esprimeva con una piccola frase, nescio quid, che si è poi sostantivata in tutte le lingue romanze, in cui si parla di un certo «non so che», di un «je ne sais quoi», di un «no se que»… Dall’antichità latina – in cui ricorre in ambito retorico e teologico, da Cicerone a Agostino – questa espressione arriva fino alla prima modernità, per conoscere tra ’600 e ’700 una vera e propria fortuna nella trattatistica sul comportamento, le buone maniere e le arti, e viene indagata non solo da preti e letterati, commediografi e poligrafi, ma anche da filosofi come Montesquieu e Leibniz. Poi la sua fortuna declina, per ragioni complesse, forse contraddittorie: in ambito estetico, il «non so che» aveva una sua ragion d’essere finché poteva essere opposto a un ideale di bellezza classicistico, che si pensava di poter fissare con regole e precetti. Ma nel momento in cui questa illusione cade, cade anche la carica polemica di un’espressione che nomina una bellezza diversa, svincolata da norme concettuali, e affidata invece a qualcosa di sfuggente e impalpabile.

Marivaux, per esempio, contrapponeva ancora il «giardino della bellezza» al «giardino del non so che»: nel primo appariva una matrona bellissima, statuaria e statica, ma dopo un po’ i visitatori si annoiavano letteralmente a morte. Nel secondo, invece, «tutto vi era come gettato a caso; vi regnava il disordine, […]che produceva un effetto affascinante […]. E, malgrado il mito che non parla che di tre Grazie, là ce n’erano un’infinità, che, percorrendo quel luogo, facevano dovunque dei lavori o dei ritocchi; dico: percorrendolo, perché esse non facevano che andare e venire, passare, darsi rapidamente il cambio le une alle altre, senza darci il tempo di fare bene la loro conoscenza». Benché sia ovunque, il «non so che» è introvabile: «Eppure, – dice il «non so che» personificato – non state vedendo che me […]. Non mi cercate sotto una forma, ne ho mille, e non ne ho nessuna di stabile: ecco perché mi si vede senza conoscermi, senza poter né afferrarmi né definirmi; mi si perde di vista vedendomi, mi si sente e non mi si discerne».

D’altro lato, ogni ideologia scientista, dal positivismo fino allo strutturalismo degli anni ’60, guardava all’uso di questa espressione con sdegno: chiamare in causa un «non so che» è pretendere di dire qualcosa non dicendo nulla. Ciò non impediva ai Beatles, nel 1968, di costruirci intorno una canzone famosa: «Something in the way she moves…». Questo «something», che connota il modo indefinibile in cui la donna evocata nella canzone si muove, corteggia, sorride, non era altro che la traduzione del nescio quid, che in inglese assume un aspetto positivo, nominando la vaghezza di «un qualcosa» che non si può determinare: «a certain something». Quando Jankélévitch si vuole riferire al correlato positivo della negazione contenuta nel «nescio quid», usa l’indeterminato quod, prendendo a prestito dal latino (e da Schelling) un’espressione che indica un «che», rifiutandosi di determinarlo con dei predicati.

La filosofia contemporanea – salvo alcune notevoli eccezioni (Derrida, per esempio, ha ripreso e sviluppato la meditazione di Jankélévitch sul perdono) – si professa per lo più allergica a quel che non si può determinare concettualmente, a quel quod che sfugge a una presa predicativa, e lo bolla come «l’ineffabile», un ritorno sterile e tautologico alla teologia negativa, una chiacchiera inconcludente. Ma non sarebbe altrettanto tautologico negare pregiudizialmente a questo quod una sua consistenza ontologica e un ruolo importante nella nostra esperienza solo perché non resta intrappolato nella rete della logica?

La questione dell’innocenza (della purezza, della spontaneità), è una questione cruciale in tutti gli ambiti della nostra cultura (morale, artistica, politica), e anzi nel darsi stesso di una cultura in generale. Su questo punto Jankélévitch sgombra subito il campo da ogni equivoco sostanzialista: come diceva Marivaux, il giardino del «non so che» va percorso, va accettato nel suo movimento incessante e dileguante, e chiunque voglia fare dell’innocenza uno stato permanente – un possesso, una proprietà – sarà preda di un’illusione grottesca, che lo inchioda alla malafede, all’affettazione, alla posa ridicola e pericolosa dell’innocente e del puro. Quel che Jankélévitch stringe d’assedio con le sue ampie volute argomentative può essere in realtà ritrovato in filosofi molto diversi, e in punti cruciali del loro pensiero: potrei ricordare la «mimesi» in Adorno, ma ancora meglio è citare un filosofo estraneo ai riferimenti culturali di Jankélévitch, e certamente più vicino allo stile argomentativo «analitico»: Jon Elster, noto per le sue ricerche sulla scelta razionale e i suoi limiti, la teoria dei giochi, le dipendenze.

In Uva acerba, Elster ha indagato gli «stati che sono effetti essenzialmente secondari», vale a dire effetti di vario genere (sociali, morali, politici) che non possono essere ottenuti consapevolmente e intenzionalmente, ma solo come effetti secondari di azioni intraprese per altri fini (se soffro d’insonnia, è vano sforzarsi di dormire, meglio interessarsi alla lettura di un libro; se voglio dimenticare qualcosa, non posso concentrarmi sullo sforzo di dimenticarla, ma devo intraprendere un’altra azione; non si può compiere un’azione per essere ammirati, e tuttavia si può deliberatamente suscitare l’ammirazione, se per esempio si agisce per raggiungere un certo obiettivo; e così via). «Quel che più conta – scrive Elster – è che gli effetti secondari sono legati a quel che accade in virtù di quel che siamo, in quanto opposto a quel che possiamo realizzare attraverso lo sforzo e la lotta». È facile vedere come ciò valga altrettanto per la purezza, l’innocenza, la spontaneità, la cultura viva. E quel che siamo non è un destino, ma è il riultato indiretto del nostro agire nel tempo, se questo agire, grazie a un «quasi niente» (un «non so che») che fa la differenza, non mira artificiosamente a fissarci in un ruolo o in un’identità funzionale a un tornaconto, ma a perseguire un obbiettivo degno del nostro amore: «vivete alla giornata, seguite la vostra strada senza piagnistei, senza nemmeno accorgervi dei guaiti dei piccoli ometti rabbiosi, e nell’indifferenza più completa verso il gracidare degli invidiosi – anche se l’indifferenza di per sé sarebbe negativa senza la presenza di un oggetto amato, il solo capace di orientare il vostro cammino».

Forse Jankélévitch si illudeva quando pensava che, non essendo la purezza o l’impurità uno stato, «non c’è uomo», per quanto corrotto sia, «che non abbia intravisto almeno una volta nella sua vita, e per un istante divino […]la città candida dove il sole di mezzogiorno non proietta più l’ombra delle cose». Ma sicuramente è riuscito a metterci in guardia, in maniera persuasiva, dagli infiniti trabocchetti dei sedicenti «puri».