Una mostra impressionante, e magnificamente condotta, Georg Baselitz. Gli eroi, al Palazzo delle Esposizioni ancora fino al 18 giugno (tappa successiva, e finale, il Guggenheim di Bilbao dal 14 luglio). Un unicum nel panorama romano recente. Il rischio, oggi più di ieri, è la ricezione di tipo culturalistico, nemesi per un artista che nel 1968 decide di rovesciare i soggetti per non dover soggiacere al ricatto rappresentativo. Anche Max Hollein, curatore insieme a Daniela Lancioni, sembra eccedere, nel saggio in catalogo (ed. Hirmer), verso le ragioni e le possibili referenze storico-letterarie del ciclo in questione, che vede la luce, con il titolo Eroi o Nuovi tipi, tra il ’65 e il ’66, Baselitz ventisettenne. Come discernere, dal gravame del nazismo, della guerra perduta, della divisione delle due Germanie, e dal gioco delle sponde culturali, gli argomenti puramente pittorici che il fu Hans-Georg Bruno Kern, nato a Deutschbaselitz, Sassonia, nel 1938, restato a ovest allorché nel ’61 viene alzato il Muro, ha sempre rivendicato a sé, con una lucida e quasi a-problematica determinazione? (Non si può continuare a dipingere senza obbligo di giustificazione? Rovescio!).
Nutritosi di Munch
L’ideal-tipo disegnato da Baselitz in questa serie subito divenuta leggendaria, ancorché tenuta nascosta nell’atelier berlinese se non a qualche affezionato come lo scrittore Wolfgang Frommel, risponde a parametri vagamente nietzschiani: una nuova umanità sortisce dalla catastrofe, ha forme muscolose e monumentali, è fatta di eroi, ribelli, partigiani, pastori, insorti, tutti accomunati da una analoga posizione psichica, l’inermità venata di malinconia, la passività di colui che, nato o costruito per distruggere, ha subìto la distruzione e non ha dinanzi a sé che il campo di macerie. I sessi che in certe tele occhieggiano o fuoriescono dalle brache o divise stracciate disegnano, ferocemente sino al comico, i termini della virilità infranta, di una nuova, rude, sacrificale tenerezza maschile. Nutritosi di Munch, per lui il classico di riferimento, Baselitz sembra averne dedotto, oltre alla franchezza di condotta pittorica, anche il modello maschile evirato e sconfitto. Ma un’opzione più prossima, dal punto di vista biografico, è probabilmente il manierismo toscano: ospite come borsista per sei mesi, poco prima di esplodere con gli Eroi, della Villa Romana a Firenze, istituzione culturale tedesca ancora intrisa del pensiero profetico-salvifico di Stefan George, non si può credere che Baselitz, già lettore appassionato del libro sul manierismo (1957) di Gustav René Hocke e collezionista precoce di stampe del Cinquecento, rimanesse insensibile agli allucinati stilismi di Pontormo e di Rosso Fiorentino: la struggente e femminile mestizia dell’astante palestrato che raccoglie sulle spalle il corpo di Cristo nella Deposizione di Santa Felicita è un precedente storico verosimile per la serie in questione, caratterizzata peraltro dalle sproporzioni e dagli allungamenti tipici dei discendenti di Michelangelo.
Lo spazio articolato del Palaesposizioni favorisce una perfetta scansione del ciclo, presentato quasi al completo, compresi alcuni disegni e xilografie connessi. All’avvio, un muro informativo offre l’opportunità, con un po’ di pazienza, di avere in modo chiaro e distinto le coordinate essenziali dell’intero percorso di Baselitz. Sono anche tradotti in italiano i due «manifesti pandemonici» che, scritti tra il ’61 e il ’62 insieme all’amico Eugen Schönebeck, e ispirati ad Artaud, definiscono, con tono proclamatorio, con una cascata fiammante di immagini, la poetica macabra e paranoica, ma anche demiurgica, del moderno artifex. Sono gli anni delle prime azioni di Beuys, ancora interne a Fluxus, ma dalle quali già si vede nascere il mago, l’artista-individuo che si erge, romantico, contro la standardizzazione delle coscienze: e mago è anche Baselitz. Solo che la magia questi vuole perseguirla attraverso un approfondimento critico e viscerale del linguaggio pittorico. Per un pittore-pittore, era difficile, in quella stagione, evitare il confronto con l’Informale, sia europeo sia americano: ma, nonostante l’interesse per Pollock e de Kooning, e per Fautrier, Baselitz capisce che in quanto a lui è una strada sbarrata, e preferisce, seppure a contrario (un contrario che con i rovesciamenti assumerà «figura»), ridare statuto al soggetto. Egli ingaggia una lotta con il soggetto, che diviene l’argomento e l’ossessione del suo dipingere.
Con gli Eroi mostra che un modo per depistare il soggetto è serializzarlo, renderlo permeabile a fughe e incroci della fantasia, giocarlo persino in chiave combinatoria (il modo in cui i limitati elementi del suo inferno – tronco, trappola, bandiera, carriola, bisaccia, il vangoghiano scarpone – tornano e si ricollocano di tela in tela: è questo il surrealismo a cui Baselitz dice di volersi ispirare?). L’uso del segno scabro, della pennellata sporca e negletta, della tavolozza attutita – il carnicino dei corpi derelitti – risponde alla stessa esigenza, e in questo senso l’artista, a parte i riferimenti più o meno deliberati a certo Novecento storico (Hodler, Kokoschka, non però gli artisti della Brücke), cerca sponde, fra i più prossimi, in esperienze singolari, non chiaramente inquadrabili, contrassegnate dalla provocazione del brutto: Dubuffet, Guston.
Nati a metà degli anni sessanta, i Nuovi tipi di Baselitz vennero presentati per la prima volta, in quanto serie, nel 1973, galleria Neuendorf di Amburgo. Perché? Ma un perché ancora più intenso riguarda il fatto che Baselitz avesse deciso, a vent’anni dalla fine della guerra mondiale, di recuperare, in modo sfacciato, la memoria storica del disastro, che l’opinione pubblica tedesca aveva voluto occultare. Si inserisce da protagonista nel dibattito, poi esploso con il Sessantotto, sulla colpa tedesca: lo fa per uscire da uno stato personale intollerabile, uomo dell’est costretto a vivere all’ovest, che non ama. Prende a prestito, per ispirazione, il mondo dei cosacchi, lacerato dal conflitto tra bianchi e rossi, nel Placido Don da Michail Šolochov: «Confrontai le condizioni di quella guerra civile con le mie… perché cercavo di vedere il mio isolamento sotto una luce eroica». Cominciò a dipingere gli Eroi, dice, «con personaggi che sembravano provenire esattamente da quei libri». Il protagonista di Šolochov, sappiamo, è l’ufficiale cosacco Grigorij Mélechov, il quale alla fine, straziato dagli avvenimenti che non rispondono punto a logiche ideali, non distingue più il bene dal male, il giusto dall’ingiusto. Che è esattamente lo stato di ambiguità conoscitiva in cui ci proiettano gli Eroi di Baselitz. Avrebbe potuto «riprendere il discorso» agganciandosi all’orrore dei campi di sterminio, ma sembra avvertire che solo rappresentando la zona neutra e sospesa della coscienza storica è possibile addentare la colpa.
In questo senso, non funziona la scelta di coronare la mostra, nel nicchione simmetrico all’ingresso, con i Remix degli Eroi realizzati nel 2007-’08. La pennellata è più leggera e spumeggiante, in linea con il carattere di ‘scherzo’ che comporta la rivisitazione, dove il possente anonimato dei protagonisti del vecchio ciclo è sostituito, purtroppo, dalle fattezze di Adolf Hitler: non sembra di poter rilevare un’altrettanta necessità storica se il pittore si chiama Baselitz. Lo sberleffo non può essere «a tavolino»: non si tratta di una poetica di tipo intellettualistico che giustifichi l’utilizzo di un genere del tutto estraneo. E così la sconvolgente compattezza epica della mostra, dove, nel finale, gli Eroi si agganciano al ciclo subito successivo dei «quadri fratturati» – conferma «dadaista» che «il soggetto non ha molto a che fare con il valore e la realtà del dipinto» (Baselitz) – rischia di rompersi.