Le prime scene ci portano in una stanza vuota, fuori dal tempo, le mura sono scrostate, la luce fioca: tre uomini puliscono con furia i pavimenti sporchi, usurati, strofinano le scope, grattano le pareti, nei loro gesti sembrano unirsi disperazione e paura. All’improvviso dai tubi appesi al soffitto spunta qualcosa, un ciuffo di capelli, e poi un altro, e un altro ancora, e mentre il buco sull’intonaco si allarga ne escono nuovi sempre più grossi, un groviglio biondo e scuro che si attorciglia come un’enorme matassa, e intanto il pavimento sputa acqua sporca e materia di ciò che un tempo fu umano finché il pianto di un bambino – che si scoprirà essere una bambina – irrompe con prepotenza, e stupisce gli uomini che infine sorridono. Evolution – il film di Kornél Mundruczo scritto da Kata Wéber, in sala da oggi col titolo Un giorno tu sarai, ricrea lo spazio di un lager in una forma quasi organica come se per restituirne lo smarrimento dell’orrore le sole immagini possibili possono essere i corpi, o ciò che ne è rimasto di coloro costretti a abitarlo, che lì hanno sofferto, e sono stati uccisi, spogliati dell’umanità di cui rimangono, appunto, le tracce del corpo. Indelebili e forse necessarie nella ricostruzione di quella «memoria» a cui si affida la narrazione dell’Olocausto.

E QUESTA dimensione organica che è quasi una dichiarazione di poetica torna nel capitolo successivo dei tre che lo compongono, e che corrispondono alle generazioni della famiglia protagonista tracciando quasi un inconscio famigliare da cui si dipana una dimensione collettiva.Eva, la bimba nata nel campo di concentramento è ormai una donna anziana – a cui dà vita la magnifica attrice Lili Mori – e si confronta con la figlia Lena, arrivata da Berlino dove vive insieme a suo figlio adolescente Jonas. L’occasione è un premio che la madre rifiuta di ritirare perché, come le dice, coloro che oggi vogliono darglielo sono gli stessi che non hanno mai smesso di perseguitarla. La lunga discussione tra le due donne compie un attraversamento nella storia della Shoah mettendone in campo da diversi punti di vista i paradossi, i conflitti, le rimozioni, gli scontri, la paura, la vergogna. Chi come Eva divenuta poi una «vittima» da celebrare ha dovuto continuare a nascondersi a quell’antisemitismo che in Ungheria o nell’Unione sovietica di Stalin non si era placato; o è stata persino costretta a difendersi da quelli come suo padre che partito per Israele abbandonando lei e sua madre le criticava per la scelta di rimanere in Europa mentre lei voleva solo «voltare pagina». E chi come Lena che l’ebraicità l’ha subita come un fardello, è stata la causa della sua infelicità di bambina con le ossessioni della madre – il cibo ammassato in casa, la sua freddezza – che l’hanno resa pure lei una «sopravvissuta» suo malgrado. Per questo oggi vorrebbe usarla – «almeno ho vissuto con l’Olocausto per qualcosa» dice – ma in Germania per essere riconosciuti come «veri ebrei» ci vogliono i certificati di nascita e quelli di sua madre e di sua nonna sono stati falsificati per salvarle. Mentre Jonas sapremo nel capitolo a lui dedicato l’ebraicità la rifiuta, troppo pesante questa storia per un ragazzino che ha voglia di guardare al futuro.

EVA nel soggiorno davanti a Lena è scarmigliata, ancora in vestaglia, all’improvviso fragile nonostante la forza esibita a scudo per l’intera esistenza: quel momento è come una liberazione, un dare voce a tutto ciò che è rimasto silente troppo a lungo, di colpo sta male e defeca in mezzo alla stanza come se la quel peso che si è portata addosso non riesca più a trattenerlo mentre la casa si trasforma anch’essa, gettando acqua dalle pareti, un’onda che irrompe distruggendo gli oggetti, le carte, le testimonianze di quell’esperienza. Come è possibile allora raccontare la Shoah? Cosa significa questa memoria a cui il film allude continuamente? Quale può esserne l’immagine, la rappresentazione, la trasmissione nel tempo tra identità mancate, oltraggi subiti, necessità di non farsi sopraffare dall’oblio?
All’origine del film c’era una pièce teatrale dei due stessi autori, e ci sono i ricordi della madre di Kata Wéber che era morta da poco quando è stato girato il film. Non è la prima volta, anche Pieces of a Woman era nato a teatro e aveva origine nel loro vissuto, il dolore violento per la perdita del figlio. E un trauma, anzi l’idea di trauma, torna qui al centro della scrittura per un film che – anche se giustamente fatto uscire nella Giornata della memoria – non è un film sull’Olocausto, non nel senso di quello che corrisponde spesso a un «genere», ma ne interroga i racconti possibili a partire dalla concretezza del vissuto per tradurlo in una forma che è al tempo stesso invenzione narrativa. La scelta del piano sequenza risponde così alla necessità di restituire questa memoria, di liberarne i legami e le diaspore e di ritrovarne i segmenti nella contemporaneità e oltre lo sforzo di definizione «identitario».
«Mia madre era già molto malata mentre stavamo provando lo spettacolo. Appena me lo avevano proposto ho subito capito che dovevo cogliere questa occasione perché non ce ne sarebbero state altre per registrare il vissuto di una generazione che sta scomparendo» aveva detto Kata Wéber a Cannes parlando di Un giorno tu sarai. Ci eravamo incontrati nei giorni del festival, lei e Mundruczó erano appena arrivati da Venezia dove alla Biennale teatro Mundruczó aveva presentato Hard to Be a God.

DICE ancora Weber: «Non era nostra intenzione fare un film sull’Olocausto. Il passato mi interessava in rapporto alla mia identità, a cosa ha determinato nella mia infanzia e nelle diverse fasi della vita. Quando ci siamo spostati a Berlino ero molto preoccupata riguardo alla mia identità, mi chiedevo cosa avrei portato con me da casa, in che modo sarei riuscita a trovare un posto per me e per i miei figli vivendo in quella dimensione duplice. Se dovessi definire Un giorno tu sarai direi che riguarda proprio queste riflessioni sull’esperienza di una identità molteplice che ho vissuto e di cui sono stata partecipe nelle persone accanto a me. Intorno a questo il concetto di trasmissione deve trovare una propria espressione. Per questo abbiamo scelto di seguire una unica famiglia, ci ha permesso di lasciare aperte delle vie all’immaginazione dello spettatore».
Il trauma diviene quindi un punto di partenza, il riferimento con cui comprendere delle discrepanze del presente. I frammenti di questa memoria, che gli autori interrogano nel gesto cinematografico spalancano nuove direzioni alla storia, si fanno dettaglio esistenziale, parlano delle paure che si trasmettono da una generazione all’altra, delle conseguenze che il passato riproduce nel presente. Un film importante questo che conferma lo sguardo di un autore capace di scoprire i meccanismi umani senza retorica né ricatti con la forza della sua arte.