Una ragazzina che aveva letto il libro, a volte un po’ arrancando, visto il film di Luchino Visconti, quello sì affascinante anche per lei che certo mai sarebbe somigliata all’abbacinante Angelica – Claudia Cardinale, arrivò a imboccare il viale della Villa Piccolo. La severità squadrata e chiarissima della villa sembrava pensata affinché il parco potesse meglio esplodere nello sguardo stupito del visitatore proprio come una visione, con tutti i suoi colori, le infinite forme, la miriade di verdi.
Ma lo splendore del parco è nato dopo la villa, per la cura elegantissima di Agata Giovanna Piccolo di Calanovella. Certo, il grande terreno che circonda la villa, a pochi chilometri da Capo d’Orlando, è sempre stato attorno all’edificio con i suoi agrumeti, il frutteto, l’uliveto, la vista sul mare siciliano. Doveva mozzare il respiro la bellissima vista della piana verso mare, verso quel golfo dove il Capo si staglia e controlla, verso le Eolie che chiudono l’orizzonte. Doveva accendere pensieri altissimi prima che sulla fertile piana colasse il cemento, segno visibile, quasi ferita fatta di foratini, di un terribile cambiamento accaduto su un luogo tra i più mitici della Sicilia. E non certo affinché nulla cambiasse, tutto restasse così com’era come andava pensando il principe di Salina, non certo con la «levità di espressione» di Tancredi e tuttavia osservato da lassù, da quel parco, «dal di dentro, con una certa compartecipazione…e senza nessun astio», ma certo con malinconia, proprio come Tomasi di Lampedusa aveva osservato e narrato il disfacimento di una Sicilia consapevole e perdente. Sì, perché proprio a Villa Piccolo e nel silenzio profumatissimo del parco tante parti del Gattopardo hanno trovato esatta composizione.
La Villa era la casa della famiglia Piccolo e fu trasformata in severa Arcadia dalla madre dei tre fratelli Lucio, Casimiro e Agata quando si ritirò a Capo d’Orlando rimasta vedova di un bon viveur che non era stato troppo attento neppure alle poco ferree regole richieste a un nobile maschio siciliano, morendo tra le braccia di una lontana ballerina. I tre fratelli erano i cugini di Tomasi e ognuno di loro modificò e ridisegnò la Villa e il suo significato secondo le rispettive inclinazioni, ottenendo un risultato finale che ancora oggi sconcerta il visitatore per raffinatezza, anzi meglio si direbbe per rarefazione, poiché ogni oggetto, ogni pianta, ogni libro, ogni angolo della Villa e del parco hanno modificato il loro semplice stato originario in virtù di quella cura.
Tutto questo l’autore del Gattopardo lo avvertiva, lo respirava intensamente anche grazie al profondo legame che ebbe in particolare con Lucio, poeta e straordinario erudito, a cui lo unì, oltre l’affetto, il costante confronto letterario e la comune ricerca di talenti poco noti. L’affanno per la scrittura del libro, quella Histoire sans nom come amava definirla egli stesso, fluisce nelle pagine del diario di Tomasi ed è lì che si affaccia il rapporto sentimentale con quel luogo. «13,15 Capo d’Orlando. Casa deserta abitata solo da un nuovo telescopio e da un globo terraqueo…» (29 febbraio 1956), «Tempo bello a Capo d’Orlando…» (1° marzo 1959). E così via, in piccoli appunti che sempre più spesso includono quella casa e quel parco non solo nello scorrere dei suoi giorni, ma dentro la scrittura che prende corpo e corpo regala alle suggestioni della residenza, gli infiniti interessi dei cugini che spaziano ben oltre la letteratura per correre verso la musica (ancora con Lucio), la pittura, la fotografia sperimentale, l’esoterismo con Casimiro, l’arte della gastronomia e la botanica con Agata, l’astronomia, «scienza atarassica», «regno stellare» indagato dai tre fratelli e consolazione degli affanni del Principe di Salina. Chissà come accolse Agata la descrizione del giardino di casa Salina narrato sotto i passi del principe Fabrizio, quel giardino dove «le piante crescevano in fitto disordine, i fiori spuntavano dove Dio voleva e le siepi di mortella sembravano disposte più per impedire che per dirigere i passi».
In effetti, bisogna essere veri esperti per intendere la logica di un giardino trasformato in orto botanico. Nulla è casuale nel parco e nell’entropia verde che lo compone. E ben lo sa il principe di Salina che nei suoi scorati vagheggiamenti post rosario palermitano riconosce non una rosa qualsiasi, ma le francesi Paul Neyron che quello spicchio di terra turgida di Sicilia, scomposta tra le pagine del libro e la verità di quel realissimo giardino appartato, ha sconvolte e mutate in una sorta di apocalisse di natura, in una di quelle metamorfosi epiche che hanno scolpito la natura e la cultura dell’isola. Se il «Principone» conosce bene le piante, quelle araucarie, le «pesche forestiere», e le infinite specie che testardamente resistono al sole implacabile di Donnafugata, le intende perché il suo creatore passeggiava silente tra una sterminata nomenclatura che Agata piantava, mutava, cresceva, studiava con la certezza e lo sperimentalismo della botanica innestata con lo studio della storia, della gastronomia intesa come scienza della fantasia, di quattro lingue parlate perfettamente. Una donna dalla bellezza intensa come un ritratto del Fayyum, appartata, timida, severa che richiama molto Concetta, la prima figlia del principe di Salina, incantevole figura silenziosa, ma dagli occhi «attraversati da un bagliore ferrigno» e «sotto la cui fronte liscia si ordivano fantasie di venefici» scalzata dalla rutilante bellezza dei tempi nuovi, delle donne nuove.
Agata però studia molto e capisce come la sua terra, il clima siciliano, simile alla «collera di Dio», ma soprattutto certi rifugi del suo parco, possono accogliere le piante provenienti dai luoghi più lontani da porre accanto a piante autoctone che però nel parco crescono come in un incantesimo o come negli acquarelli fantastici di Casimiro. Il parco è fatto da dialoghi serrati e sgargianti tra ibiscus che da arbusti sono diventati alberi secolari e piante di strelitzie giganti, tra glicini che avvinghiano il pergolato che spalanca sul mare e ciuffi giganteschi di dasylirion, trale imponenti euforbie la cui delicata fioritura ricorda le notturne, religiosissime cuffiette di Maria Stella principessa di Salina e la famosa Puya berteroriana, un autentico capolavoro botanico di Agata Giovanna che, per prima, riuscì a farla attecchire in un parco mediterraneo e su cui scrisse anche un trattato. Il visitatore scivola dentro il libro, cerca quel gattopardo di pietra che torna così spesso in quelle righe e, pur nella sua assenza, fa combaciare ancora parti di giardino e pagine. Il giardino esoterico voluto da Casimiro, il perimetro di alloro del teatro e quel sedile – ma dov’è a Palermo, a Donnafugata, a un passo da Capo d’Orlando? – sul quale il principe di Salina si siede e guarda arredi barocchi di pietra viva e carnale, proprio come la fontanella barocca di Villa Piccolo che sorveglia ninfee e fiori di loto. E poi quel viale che porta il visitatore all’accogliente sedile di pietra, ancora oggi detto la «panchina di Lampedusa» dove Tomasi e Lucio, da bravi siciliani, tenzonavano sulla Histoire sans nom e dove Fabrizio guarda assorto il muso di Bendicò.
Già i cani, quei cani tanto cari alla famiglia Salina che, morendo, ricevono giusta sepoltura. Dove? A che pagina? In una parte del parco. Eccolo qui il Cimitero dei cani, con tutte le piccole lapidi ognuna con il nome dell’animale che, secondo le teorie amate da Casimiro, torna a far visita ai padroni. Non si troverà la tomba dell’alano nero del principe, ma certo quella di Crab, amato cane di Tomasi. Si ferma allora, in questo angolo geometricamente appartato, la visita di quella ragazzina, imparando il necessario rispetto del silenzio.