«Un fitto bosco, il sole estivo che filtra fra i rami, e poi, scena per scena, lo stesso scenario naturale che ritorna, con i colori accesi dell’autunno o con il bianco di neve. Grazie alle mobili e cangangianti foto «boschive», elaborate in video da Martin Eidenberger, Robert Carsen immerge il Flauto Magico di Mozart in una natura simbolica, essenzialmente giocato su un vasto prato – in realtà un cimitero con sepolturre aperte, con i servi di Monostatos con le pale a fare da becchini, e il corteggio di Sarastro, e della Regina della Notte, con dame al seguito, in lutto stretto e con il velo.

Solo le scene di iniziazione si spostano nell’ambiente sotterraneo, tre pozzi di luce che illuminano la caverna e le bare. Nel finale il bianco comparirà sui vestiti di tutti, ma durante l’opera è riservato solo a Tamino e Pamina, mentre Papageno è un aitante lumberjack, con zaino e camicia a scacchi. Una metafora raccontata volutamente nel luogo dove vita e morte si incontrano, con i due genitori, la Regina e Sarastro, mano nella mano – l’uomo, sempre in comando della situazione che guidano i due adolescenti alle prove iniziatiche della vita adulta.

Una regia ben congegnata ma vistosamente asettica, con qualche forzatura drammaturgica e la rinuncia pressoché al lato fiabesco, compensate in parte dalla poesia dello scenario vegetale e dalle invenzioni buffe (i tre genietti – debolucci – che palleggiano in divisa da calcio, Papagena è sposa cadavere, che si trasforma in gitante sexy. In chiusura, la solita passerella intorno all’orchestra trasforma il finale, fra i più sublimi dellla storia della musica, nella banale, risaputa uscita dei protagonisti, tutti a piedi nudi nell’erba, schierati in piena luce davaavanti al pubblico.

Philippe Jordan, che alla fine corre anche lui in palcoscenico in frac ma a piedi nudi, cura i dettagli della narrazione con garbo e precisione, ma i tempi a tratti si allentano e il brio latita. L’orchestra poi mantiene sempre un livello accettabile ma senza coprirsi di gloria; molto meglio il coro. Nel cast brilla la giovane Sabine Devieilhe, che non è la nuova Dessay ma recita e canta stupendamente, centrando senza esitazioni le arie di Astrifiammante; molto in forma il veterano Franz-Josef Selig, Sarastro solenne e umanissimo, e bene nel complesso gli altri, Pavol Breslik e Julia Kleiter coppia maggiore spigliata e affettuosa, e Daniel Schmutzhard, Papageno simpaticissimo, accanto a Regula è Athlemann, voluttuosa Papagena; bel cantati e caratterizzati Monostatos (Francois Piolino) e le tre dame.

Pubblico alle stelle, applausi per tutti, Devielhle e team registico festeggiatissimi. La recita è stata dedicata a Gerard Mortier, morto sabato scorso, che ha guidato l’Opera de Paris dal 2004 al 2009. L’immensa gigantografia di Trististan und Isolde, nell’ormai storica messa in scena wagneriana di Peter Sellars e Bill Vl Viola, che campeggia sulla facciata dell’Opera Bastille (l’ennesima ripresa del prossimo mese di aprile sarà dedicata proprio a Mortier) può bastare da sola a dare la misura dell’eredità artistica lasciata nella capitale francese da uno degli organizzatori musicali più discussi e brillanti degli ultimi trent’anni.