Ornella Vanoni ha chiuso con i dischi. Almeno per quelli inediti che richiedono tempo. Per questo suo ultimo lavoro, e una volta tanto il termine sembra appropriato, racconta «abbiamo lavorato un anno e mezzo, non andavo in studio perché non si vendono dischi. Allora Mario, Lavezzi, il mio produttore, ha voluto dare un po’ di vivacità, coinvolgendo il giovanissimo Lorenzo Vizzini».

Venti anni, sfrontato quanto basta per realizzare con la Vanoni otto brani di questo nuovo Meticci – Io mi fermo qui, e con chitarra appresso l’accompagna in un paio di brani eseguiti al volo. Lui sarà anche sfrontato, ma Lavezzi e soprattutto Vanoni hanno dimostrato una fiducia smisurata coinvolgendolo da comprimario in un progetto coltivato da tempo.

Aggiunge Ornella «è uno che legge molto da quando ha sei anni» e questo permette di allargare lo sguardo, «poi io ci ho aggiunto la mia parte femminile». Poi parla delle altre collaborazioni. «Nada, che stimo molto, ha scritto una cosa talmente bella… Battiato che mi ha detto di avere la canzone per me, scritta insieme a un arabo …» «Nabil Salameh», aggiunge Vizzini vedendola in difficoltà sul nome, «certo, lui è siciliano…». E quando parla di Dalla è commozione «aveva una curiosità incredibile, di tutto, ha allargato la sua intelligenza in modo strepitoso, poi lui, come DeGregori e Morandi, era tra quelli che rispondono sempre al telefono, mi manca».

Non sembrano invece mancarle gli uomini «da dieci anni, basta odori, basta peli…» anche se poi non si muove senza il suo barboncino americano color cognac, batuffolo pelosissimo.

Ma il grande cruccio del momento per Ornella è il trasloco. La mitica casa di largo Treves sta per essere lasciata. Alla domanda del perché neppure risponde e allora viene aggiunto «costava troppo?», «bravo» aggiunge sarcastica. Passare dai 250 metri di quella casa storica ai 130 è un problema, soprattutto per le cose accumulate nel corso degli anni «piumoni, bicchieri, tappeti, di tutto, con l’età si impara il distacco dalle cose, non dagli amici, dal lavoro, solo dalle cose, vorrei una casa giapponese, vuota». Ma quando specifica di avere gettato anche tutti i master che aveva in cantina Lavezzi e il responsabile Sony non ci credono, la sua assistente invece conferma «tutto al macero».

Vero o falso non importa. Così Ornella elabora il lutto del trasloco, considerato trauma a tutti gli effetti dagli psicanalisti. «Loro infatti non guardano, ascoltano, perché la voce non mente. Quando sento qualche amico lo capisco subito se c’è qualcosa che non va». La sua voce invece è sempre la stessa. Inconfondibile e magnifica. Infatti poi si scopre che forse sarà l’ultimo disco di inediti, ma altre cose sono in cantiere. Un cofanetto che per Lavezzi dovrebbe essere come un libro sonoro che ripercorre la carriera di Ornella, poi uno spettacolo che girerà la prossima primavera dal titolo, provvisorio «un filo di trucco, un filo di tacco, era una frase di mia mamma, che anche se morta da tempo, ogni tanto mi rompe ancora», e infine per stemperare il trauma trasloco un concerto in Canada e uno a New York, al Café Carlyle, luogo deputato anche per il jazz.

E Ornella sembra voler puntare sempre più in quella direzione «il bello del jazz è che si prova poco», anzi talvolta, con Paolo Fresu, è andata di pura improvvisazione con risultati eccelsi. Poi non resiste al vezzo della donna d’altri tempi, ma lo fa a modo suo, affermando «siamo vittime dei mezzi» e si riferisce al computer e a tutto quanto ha modificato il nostro rapporto con il mondo e soprattutto con gli altri «io sono cartacea» dichiara convinta, anche se poi aggiunge che quando si stufa di rispondere alle mail perché non partono mai, ci sono indirizzi sbagliati etc., chiama al telefono per dire la sua. Ecco, così è tutto più chiaro, altro che cartacea, Ornella non le manda a dire, usa direttamente la sua voce. Sa che così il messaggio arriva, forte e chiaro e magari anche bello da ascoltare.