I due palchi principali del Festival Musicas do Mundo si vedono anche dalle finestre della casa natale di Vasco da Gama. Non è una coincidenza in fondo, perché il grande esploratore è nato qui, a Sines, sulla costa atlantica del Portogallo, centocinquanta chilometri a sud di Lisbona, e qui è cresciuto, qui sempre tornava, qui godette dello status di «Ammiraglio dell’Oceano Indiano» che gli venne consegnato al ritorno dal suo primo viaggio in India. Ed è significativo che proprio nella città natale di un navigatore si celebri da diciotto anni una kermesse che esplora i bacini delle musiche del mondo, convocando in ogni edizione una cinquantina di gruppi che permettono di disegnare un meraviglioso itinerario d’ascolti, sinonimo al tempo stesso d’incontro e di scoperta. Peraltro questo ameno porto di ventimila abitanti è abituato da secoli a fare i conti con «visitatori», non sempre pacifici e festanti come quelli della rumorosa carovana di un festival di World Music. In più di duemila anni di storia infatti, ad occuparlo militarmente si sono avvicendati cartaginesi, romani, visigoti, mori, francesi e queste scorribande, più o meno permanenti, devono avere davvero temprato il carattere degli abitanti in direzione di un’ospitalità paziente e partecipe.

È l’attitudine che abbiamo registrato durante i giorni del festival, quando il piccolo centro veniva sollecitato da un’imponente invasione di turisti, freaks, punkabbestia, buskers, ambulanti d’ogni genere e quando la paciosa vita cittadina veniva completamente stravolta dal fertile assedio delle musiche programmate a qualsiasi ora del giorno e della notte (basti pensare che il set conclusivo della kermesse, quello del duo portoghese Jibôia, era stato fissato a partire dalle 5,45 del mattino..). Deve essere anche per questo esplicito retaggio dell’accoglienza e della stratificazione culturale che il direttore artistico Carlos Seixas si ritrova ogni anno carta bianca per quel che riguarda le scelte di programmazione e si ritaglia pure la libertà di innestare sulla struttura del palinsesto concertistico anche una serie di iniziative collaterali che comprendono workshop, letture, incontri con scrittori, mostre (quest’anno all’interno del modernissimo Centro de Artes ce n’era una bellissima di quattro fotografi mozambicani: Moira Forjaz, José Cabral, Luis Basto e Filipe Branquinho), proiezioni di documentari, corsi di liuteria..

Ma naturalmente il piatto forte è quello dei concerti, con un’attenzione, particolare ma non esclusiva, nei confronti della matrice lusofona. In questo bacino è un po’ paradossale ma doveroso constatare che non sono state le proposte portoghesi a brillare per messa a fuoco e originalità del progetto, quanto quelle che arrivavano dalle ex colonie (in particolare Capoverde, Brasile, Angola…). Se nella prima categoria non ci ha convinto affatto la musica del duo Hearts and Bones dedita ad una convenzionale rivisitazione del repertorio blues, né il pastiche folk-prog di folti gruppi come Criatura e Retimbrar, le banali commistioni celtiche di Sebastiâo Antunes & Quadrilha e le fin troppo onanistiche performance chitarristiche di Filho da Mâe e Norberto Lobo, nella seconda dovremo per forza approfondire un po’ di più e segnalare performance davvero eccellenti. Dal Brasile, in particolare da Bixiga, uno dei quartieri più meticci di Sâo Paulo, arrivavano appunto i Bixiga 70, folto ensemble di miscelatori del ritmo depositari di una convincente vena afro-latina con forti influenze funk.

Da Capoverde, catapultato direttamente dall’Isola di Santiago, la più «africana» dell’arcipelago, arrivava invece Vitor Tavares, meglio conosciuto come Bitori Nha Bibinha. Si tratta di un vispo settantasettenne, leggenda del genere funana e virtuoso del suo strumento simbolo, la gaita capoverdiana: nient’altro che un organetto diatonico, ma attorniato da un corredo di percussioni metalliche. L’effetto finale è inebriante, come le folate di vento che frequentano d’estate questo pezzo di Portogallo.

Paulo Flores è molto più giovane di Bitori, ha solo quarantaquattro anni, ma viene già considerato un capofila, avendo alle spalle ventotto anni di carriera e una quindicina di album. Il genere che «manovra» è il semba, suadente declinazione di melodie in minore su chitarre elettriche piuttosto aggrovigliate, anche se ad inizio carriera era stato uno dei forgiatori di un alto stile angolano, il kizomba («festa» in lingua kimbundu), torrida variante urbana di ritmi tradizionali. È toccato a lui raccogliere sul palco dell’Avenida Vasco da Gama, di fronte all’oceano, il pesante testimone del concerto del ghanese Pat Thomas. Quest’ultimo, insieme a quella perfetta macchina ritmica che è la Kwashibu Area Band, aveva chiuso magnificamente il palinsesto del palco piazzato all’interno del «Castelo» che domina il promontorio di Sines.

Ci sarebbero molti altri exploit da raccontare (e anche qualche delusione naturalmente) alla fine di questo festival sulla costa atlantica, ma ci limiteremo a citare i flash emozionali dell’incontro tra il sax di David Murray e lo spoken word di Saul Williams, vero e proprio cortocircuito fertile tra due culture limitrofe come il free jazz e l’hip hop. Poi le melopee creole di Daniel Waro, il beat schizoide dei colombiani Los Piranhas e quello dei congolesi Konono Nr.1, il cabaret folle delle ucraine Dakh Daughters e la psichedelia tropicale dei Fumaça Preta.

Faticheremo infine anche a cavarci dalla testa le illuminanti e irresistibili storie raccontate e cantate da Billy Bragg. Un vero e proprio esorcismo laico vecchia maniera il suo, celebrato con molto humour, ma senza mai abbassare la guardia, contro il mood imperante di questi tempi «cinici e bari».