Una ragazza viene uccisa per permettere il successo di una guerra di conquista; la guerra porterà a massacrare un nemico giudicato razzialmente e culturalmente inferiore. E il pretesto della guerra è: punire una donna che ha lasciato il marito. Il nucleo ideologico del mito è orribile: l’esaltazione dell’imperialismo colonialista, dell’oppressione violenta delle donne, del femminicidio sono sconvolgenti. Euripide, nella sua ultima tragedia Ifigenia in Aulide, sceglie di rendere il mito ancora più sbalorditivo. Sono il padre (Agamennone) e lo zio (Menelao) a macchinare per uccidere la ragazza, Ifigenia; e lo fanno esplicitamente per brama di potere: il femminicidio in famiglia è il prezzo per vincere la guerra. Ma la loro miseria morale è tale che non riescono nemmeno a essere perseveranti nel male: Agamennone accetta con gioia di uccidere la figlia con l’inganno, si pente, scrive e distrugge la lettera che potrebbe salvare la figlia: tutto inutilmente. Menelao prima richiede imperativamente il sacrificio e poi ci rinuncia – ma quando ormai è troppo tardi. Agamennone non ha nemmeno il coraggio di dire in faccia alla figlia e alla moglie quello che ha fatto. La presentazione dei personaggi maschili non potrebbe essere più devastante: corrotti, vili, avidi, incerti. Ma la cosa più stupefacente è la reazione di Ifigenia: da vittima implorante e atterrita della morte, si trasforma e la accetta volontariamente, orgogliosa di permettere la vittoria contro i barbari. Patriottismo e coraggio? Autoillusione? Delirio di martirio? La vittima di una violenza fin troppo consueta, uccisa dai maschi della famiglia (padre, zio, e i loro amici maschi), esalta il femminicidio.
Il testo non offre una chiara soluzione ai nostri dubbi. Non la offre anche perché Euripide non lo scrisse nella forma in cui è trasmesso nella tradizione manoscritta medievale. L’opera si conclude con il racconto di un messaggero: gli dèi sostituiscono Ifigenia, al momento del sacrificio, con una cerva grande e bellissima. La salvezza in extremis ricorda il sacrificio di Isacco. Ma la conclusione dell’opera non è stata scritta da Euripide. Euripide forse non terminò la tragedia, che andò in scena postuma. Il testo finale è senz’altro non suo: di età tardoantica o, secondo altri, addirittura bizantina. Non solo il finale, ma diverse sezioni di esso suscitano dubbi, per una serie di incoerenze (vere o presunte). In questo dibattito critico si inserisce la recente edizione, curata da Valeria Andò: la prima edizione critica con commento scientifico scritta in italiano. Un’edizione che chiunque può leggere gratuitamente, fin da questo momento. Serve però una premessa.

Democrazia e ricerca
Le ricercatrici e i ricercatori delle università dell’Unione Europea sono, nella quasi totalità dei casi, alle dipendenze pubbliche: enti regionali, Stati e Unione Europea finanziano le attività di ricerca e didattica delle università attraverso la tassazione. Le pubblicazioni che diffondono i risultati di queste ricerche sono però accessibili perlopiù a pagamento. Il movimento a favore dell’accesso aperto ha tratto sempre più spinta negli ultimi anni, anche grazie a opportune azioni di alcuni governi e dell’UE. Finora però sono poche le serie ad accesso interamente aperto (nel gergo tecnico ‘Gold Open Access’). Tanto più benvenuta perciò è la nuova collana, pubblicata dalle Edizioni Ca’ Foscari, di supplementi alla rivista «Lexis», dedicata alla letteratura greca e latina (già quattro i volumi usciti, su Omero, Euripide, Cicerone, la storiografia classica). L’ultimo è appunto l’edizione critica dell’Ifigenia in Aulide di Euripide, con introduzione, traduzione e commento a cura di Valeria Andò (e un’appendice metrica di Ester Cerbo). Questo significa che chiunque, con una semplice ricerca di parole chiave su un motore di ricerca, può scaricare gratuitamente l’intero PDF dell’opera (e chi volesse una copia cartacea può ordinarla a un prezzo molto ragionevole: pp. 563, e 36,00).

Una nuova interpretazione
Nella prima versione a stampa dell’Amleto, pubblicata nel 1603, quando Shakespeare era vivo e vegeto, il più famoso monologo della storia del teatro iniziava così: ‘Essere o non essere, ah, lì sta il punto’ (To be or not to be, ay, there’s the point). Molte scene mancavano, o erano spostate, allungate, accorciate o variate rispetto alle edizioni del 1604 e 1623. Molto probabilmente la versione del 1603 aveva un’origine teatrale: un testo imparato a memoria da uno degli attori o un testo usato per una messa in scena dell’epoca. Quello normalmente utilizzato oggi è una combinazione (con molti tagli) delle tre versioni a stampa. Se questi sono i problemi per un autore moderno, le difficoltà sono, per certi aspetti, maggiori nel caso di Euripide. Che cosa scrisse Euripide? E, soprattutto, cosa deve stampare una edizione moderna? L’incertezza sulla completezza e autenticità del testo spinge lettrici e lettori a fare quello che fa Agamennone con la sua lettera in scena: cancellare e riscrivere. Come dice Agamennone: ‘se io, dopo aver in un primo momento pensato male, ho preso la decisione giusta, sono pazzo?’. Così si sente un po’ chi deve pubblicare questa tragedia. Di solito si cerca di immaginare un testo originale coerente e logico – se necessariamente un testo letterario dovesse essere completamente logico, e come se ci si dovesse attendere questo da un testo incompiuto (sempre che davvero fosse stato lasciato incompiuto da Euripide, e che il completamento del finale non sia una semplice riscrittura per colmare una lacuna). Alcune edizioni moderne scelgono di indicare differenti gradi di probabilità. Diggle, ad esempio, nella sua edizione pubblicata a Oxford nel 1994, distingue versi ‘probabilmente di Euripide’, ‘difficilmente di Euripide’ e così via: questa procedura è unica per i testi del teatro antico, e riflette una situazione testuale unica. Kovacs, nella sua edizione pubblicata da Harvard University Press nel 2002, sceglie invece di ricostruire non il testo di Euripide, ma il testo (molto ipotetico) della prima rappresentazione; e nel fare questo elimina molte scene, sempre mirando a una coerenza drammatica.
L’edizione di Valeria Andò si distingue per una saggia moderazione nelle scelte testuali: viene escluso solo quello che, per motivi linguistici e di senso, è assolutamente impossibile attribuire a Euripide. Andò però offre ampio spazio alle discussioni sui problemi interpretativi, e ammette le difficoltà. Il vantaggio di questa procedura è che ci si avvicina a una forma testuale sicuramente esistente: il testo di Euripide che era diffuso nell’antichità, prima delle modifiche tardo-antiche. Sappiamo con certezza che esso fu standardizzato da editori antichi dell’età alessandrina, e questo rende, per vari aspetti, più semplice il compito degli editori moderni, anche a confronto con gli editori di Shakespeare.
Mito falso e consolatorio?
Il libro di Valeria Andò guida in maniera eccellente alla lettura del testo. Con sottigliezza, accuratezza e acume analizza le interpretazioni della critica, varie e contradditorie come le lettere di Agamennone; anche chi, occasionalmente, si discostasse dalla sua interpretazione, o la volesse sviluppare in direzioni diverse, trova nel suo libro tutti gli strumenti e i dati per nuovi lavori. La sua lettura giustifica l’osservazione di Aristotele: i personaggi possono essere incoerenti, ma devono essere ‘coerentemente incoerenti’. Questo commento sarà un punto di riferimento per la comunità scientifica, ma anche per lettrici e lettori semplicemente appassionati di teatro e di mito. Il mito è però inquietante. Come osserva finemente Valeria Andò, la riscrittura antica del finale offre un ‘suggello metateatrale’ e metaletterario all’opera: dice Clitemestra ‘come non pensare che questo racconto, del tutto falso, ha la funzione di consolarmi?’. Il testo di un falsario, che si spaccia per Euripide, ha colto nel segno. Il mito finale, la cerva che evita il femminicidio di Ifigenia, è un racconto che suona falso e consolatorio. La guerra di Troia avrà luogo, come molte altre. Ma Euripide ha mostrato la pochezza etica e intellettuale di chi riesce, ahimè con successo, a convincere le vittime a vittimizzare se stesse.