Il 24 agosto del 1975, di ritorno da una partita di calcio, il trentaduenne Sean Farmer, padre di 4 bambini, e il ventiduenne scapolo, Colum McCartney, vengono fermati da un gruppo di individui armati nei pressi di Lough Beg, un lago minore tra Belfast e Derry. I due si trovano, cattolici, in territorio ostile: una zona protestante. In circostanze oscure e senza testimoni, vengono giustiziati secondo la pratica macabra dei casual killings, omicidi casuali molto in voga, quale allucinata modalità di rappresaglia, tra le gang lealiste protestanti. La seconda vittima, Colum, era un cugino di Seamus Heaney.
Il poeta nordirlandese, quattro anni dopo, nella poesia The Strand at Lough Beg avrebbe scritto: «Cos’ha lampeggiato di fronte a te? Un posto di blocco finto? / La luce rossa ondeggiava, / una frenata improvvisa e il motore s’arrestò, voci, teste incappucciate, e la fredda canna del fucile». Cinque anni più tardi, nel poemetto Station Island, sarà la stessa ombra del cugino a rimproverarlo per averne «inzuccherato» la morte: «Il protestante che mi ha sparato in testa / lo accuso direttamente, ma indirettamente, accuso te / che ora fai ammenda forse su questo letto / Per come hai sbiancato l’orrore e tirato giù / le belle veneziane del Purgatorio / e inzuccherato la mia morte con rugiada mattutina». E pensare che su internet alcune versioni svogliate della tragedia riportano che ad uccidere il giovane lavoratore sia stata l’Ira, e non i protestanti.
Seamus ne avrebbe riso, e forse ne avrà riso. Perché lui, che dopo il Premio Nobel del 1995 veniva scherzosamente chiamato, in Irlanda, «famous Seamus», era un poeta ironico. A maggio, in una lettura privata di poesie nella residenza dell’ambasciatore irlandese a Roma, recitando i suoi componimenti più famosi Heaney ogni tanto s’arrestava per dei vuoti di memoria; allora Marie, la moglie e compagna di una vita, gli suggeriva il verso mancante, e Seamus riprendeva a recitare. Col sorriso sulle labbra. Ma il suo sorriso era un impegno, l’impegno politico di ogni giorno. L’impegno a stare sempre dalla stessa parte, in poesia, come in politica.
La sua carriera iniziò con la famosa Digging, scritta quasi cinquant’anni fa: «Tra l’indice e il pollice / si accuccia la penna, al riparo, come una pistola». Ma nel maggio scorso confessava a Michelucci, in un’intervista uscita su Avvenire: «L’ultima cosa che vorrei è che la mia poesia venisse usata per legittimare la violenza». E infatti Digging si conclude così: «Tra l’indice e il pollice / si accuccia la penna. / Scaverò con quella».
Seamus apriva spesso le sue frequentatissime letture con la prima poesia, quasi a ricordare il suo predecessore, l’altro Nobel irlandese, W.B. Yeats, che all’Accademia Reale Svedese scelse di recitare una delle prime, e forse delle più famose e trite, tra le sue poesie: The Lake Isle of Inishfree. Ma come Heaney, anche Yeats sapeva sorridere. Quando ricevette la telefonata in cui gli si annunciava, con lunghe perifrasi, l’assegnazione del Nobel, il vecchio poeta non esitò a dire: «Insomma, fatemela breve, quanto mi danno?»
Come per Yeats, anche per Heaney la politica e la poesia abitano ambiti contigui. Eppure, quando nel 1972, dopo aver assistito a tanta, troppa violenza in Irlanda del Nord, decise di allontanarsi da quelle radici profonde per stabilirsi a Glanmore, a sud di Dublino, nella Repubblica d’Irlanda, gli fu contestato d’essersi scelto un posto al riparo dai rischi, un luogo da cui chiudere un occhio di fronte all’urgenza della lotta per la causa. Ma anche a Dublino Heaney non smise di lottare, anzi, la sua battaglia si fece più incisiva. Grazie alla scrittura, ma anche grazie all’insegnamento; perché per Heaney la poesia, con tutta la sua rarefazione, con tutto il suo stile precisissimo ed etereo che si fa sostanza ma solo per superarne la materialità, aveva un valore pedagogico, come a dire che «insegnare la poesia» si può proprio perché la poesia può insegnare, perché la poesia deve insegnare. La cultura come esperienza educativa, l’estetica che si fa etica. Ecco cosa ci lascia Seamus Heaney.
È questa la responsabilità del poeta: la responsabilità di tramandare, costruire ponti che rendano possibile una continuità culturale con il passato. La poesia diviene archeologia, un tentativo di scavare all’interno di una tradizione, di una memoria comune, al fine di rivelarne i percorsi sommersi, occultati dalle incrostazioni del tempo e della cultura, al fine di rinvenirne l’umanità sepolta. Non a caso gran parte delle prime poesie di Heaney hanno a che fare con universi sotterranei, con scheletri fossili, conservati attraverso i secoli da una natura che non è tomba, ma madre generatrice e vigile custode.
La poesia di Heaney, e la sua vita, hanno teso verso la riesumazione di una identità culturale e nazionale nascosta, forse dimenticata: di una essenza invisibile agli occhi degli occupanti la sua isola, legittimi o meno che fossero. Questa continuità spirituale e materiale è il legame tra la provenienza rurale di questo poeta internazionale e il suo radicamento sociale e politico mai venuto meno. Ed è in quel passato da riesumare che il poeta Heaney nordirlandese ha scoperto la propria missione, la propria responsabilità: la stessa di un altro suo grande predecessore, James Joyce, anch’egli ombra di Station Island: la responsabilità di «creare nella fucina dell’anima la coscienza increata della mia stirpe».