A 100 giorni dalle elezioni europee (dal 23 al 26 maggio), la grande inchiesta sull’opinione pubblica europea realizzata dall’istituto Kantar può essere letta con un po’ di ottimismo, anche se non per l’Italia. Intanto, il sogno di Steve Bannon di costruire una maggioranza nazionalista ostile all’integrazione europea non si realizzerà: certo, la Lega corre e uno degli attuali tre gruppi di estrema destra, l’Enf, accrescerà notevolmente il suo peso, con una previsione di 22 deputati in più (dagli attuali 37 a 59, soprattutto grazie agli italiani, dati come partito in Italia e secondo nell’Ue, e al Rassemblement national di Marine Le Pen), ma questo successo che li porterà all’8% sarà controbilanciato da una stagnazione o da un calo degli altri due gruppi.

 

 

Uno, l’Ecr, dovrà fare i conti con l’assenza dei conservatori britannici, l’altro, l’Efdd dove siede il M5S, patirà dell’assenza dell’Ukip e potrebbe addirittura sparire se gli italiani e l’Afd tedesca aderiranno ad altri gruppi. Complessivamente, i nazionalisti potranno occupare un grosso quarto del nuovo europarlamento, ben lontani dalla maggioranza (353 deputati), con circa 160 seggi, contro i 151 attuali (oggi sono il 20%, saliranno di qualche punto percentuale). Inoltre, questi partiti sono profondamente divisi tra loro, sia in economia (una parte è ultra-liberista) che in politica estera (divisioni tra occidentali più pro-Putin e europei dell’est molto meno filo-russi) o sui grandi temi transnazionali, come l’immigrazione dove tra i nazionalisti vige l’ognuno per sé. Al massimo, l’estrema destra avrà un potere di «coesione negativa», mentre il peso dei nazionalisti è più forte al Consiglio, dove i governi in cui è presente l’estrema destra, vista la preponderanza del voto all’unanimità, hanno il potere di blocco. Un’altra notizia significativa che risulta dal sondaggio è che i temi che più interessano i cittadini europei – l’immigrazione, l’ambiente, anche il terrorismo – sono tutti transnazionali. Peccato che non ci siano però liste transnazionali, progetto affondato sul nascere per questa tornata elettorale dai democristiani del Ppe, malgrado alcuni tentativi.

Il nuovo parlamento sarà molto più politico di quello uscente, perché segnerà la fine dell’era del modello tedesco della Grosse Koalition, tra Ppe (democristiani) e S&D (socialisti e social-democratici), che viaggiavano mano nella mano, anche dividendosi le cariche, forti del loro 55% complessivo. Il nuovo parlamento avrà 705 deputati, contro i 751 attuali (parte dei seggi non più occupati dai britannici saranno spartiti tra altri paesi, per esempio 5 in più per la Francia, 3 per l’Italia). L’assenza del Labour (e il crollo del Pd e del Ps francese) ridimensionerà S&D. Il Ppe resterà il primo gruppo, ma in calo. Nessun gruppo avrà più di 200 deputati, l’Europarlamento sarà spaccato come non lo è mai stato nella sua storia. Avrà bisogno di più compromessi e più tempo per realizzarli, ma non ci sono grandi rischi di blocco, visto che la maggior parte dei voti sono a maggioranza semplice.

Paradossalmente, in un momento in cui si acuiscono le inquietudini per l’ambiente e il disordine climatico, i Verdi perderanno terreno (anche perché la sensibilità ecologica si diffonde in altre formazioni), ma acquisirà importanza l’Alde, i centristi liberal, a cui potrebbero aderire i deputati Lrem (il partito di Macron, una ventina, più 2 degli alleati del MoDem). Alla sinistra della sinistra restano molte incognite, l’inchiesta Kantar gli attribuisce 46 seggi, ma altri sondaggi arrivano a 58 (cosa faranno i greci di Syriza? Cosa farà La France Insoumise di Jean-Luc Mélénchon?), mentre resta l’ipotesi della riorganizzazione del gruppo Gue, attraversato da varie spaccature (a cominciare dai migranti, che hanno diviso uno dei partiti che la compongono, Die Linke).

La brutta notizia è che, stando all’inchiesta Kantar, ci sarebbe una maggioranza nel nuovo Europarlamento: sul modello austriaco, alleanza democristiani-estrema destra. Ma la questione dell’antisemitismo molto probabilmente impedirà questa intesa. Anche se va segnalato che il gruppo Ppe si sta spostando sempre più a destra: al suo interno c’è il Fidesz di Viktor Orbán e le ultime dichiarazioni sull’Istria e la Dalmazia dell’attuale presidente dell’Europarlamento, l’italiano Antonio Tajani, preoccupano per la deriva nazionalista. La fine dell’intesa Ppe-S&D rende caduca la manovra dello spitzenkandidat, cioè la designazione di un presidente della Commissione da parte dei grandi gruppi, che nel 2014 aveva portato all’elezione di Jean-Claude Juncker. Così, non è per nulla scontato che il candidato designato dal Ppe, il tedesco Manfred Weber, sia il prossimo presidente della Commissione (dal Trattato di Lisbona, l’Europarlamento elegge il presidente della Commissione, su proposta del Consiglio).