In un periodo in cui i casi di positività al Coronavirus sono in rilevante aumento anche nell’arcipelago nipponico, ieri a Tokyo si è superata la quota 500 (su un numero irrisorio di test però) per la prima volta dall’inizio della pandemia, restano ancora pochi i film giapponesi che hanno cercato di riflettere su questo momento storico ancora, per altro, in fieri. Alcuni mesi fa abbiamo scritto dell’omnibus Stato di emergenza, prodotto da Amazon a cui partecipò con un notevole corto anche Sion Sono, oggi è la volta di Hakai no hi, The Day of Destruction (Il giorno della distruzione) di Toshiaki Toyoda. Il film è ancora in alcune sale dell’arcipelago, ma ha avuto il suo debutto il 24 luglio, il giorno in cui le Olimpiadi di Tokyo dovevano essere inaugurate.

NELL’APRILE dello scorso anno Toyoda era stato arrestato per possesso di un’arma da fuoco, poi rivelatasi un cimelio di guerra, e nel 2005 aveva avuto già problemi con le autorità e la sua carriera aveva subito uno stop di quattro anni quando era stato trovato in possesso di sostanze illecite. Autore dagli inizi quasi punk con Pornostar e Blue Spring una ventina di anni fa, con questo mediometraggio, poco meno di un’ora, ritorna alla carica eversiva degli inizi, ma la ibrida qui con un senso dello spirituale che aveva già esplorato nel suo film del ritorno dopo gli arresti nel 2009, The Blood of Rebirth.
Il giorno della distruzione comincia con un uomo, Ryuhei Matsuda, che si reca in una miniera dove è stato ritrovato un mostro, una massa gelatinosa, da quel momento, nella zona comincia a diffondersi una sorta di malattia che colpisce la stabilità mentale delle persone. Ken’ichi, interpretato come in uno stato di trance dal musicista Mahi To The People, è un giovane praticante dello Shugendo (semplificando un po’, si tratta di una scuola sincretica che si basa sull’ascesi) che attraverso atti di esorcismo e automummificazione cerca di ristabilire l’equilibrio, distruggere lo stadio olimpico di Tokyo, luogo che simbolizza la malattia, e salvare la sorella afflitta dal morbo.

IL TUTTO è raccontato come in una sorta di stato onirico, con scene che appaiono come lampi e che sono energizzate dalle potenti musiche, quasi metal, e da un sound design che avvolge tutta l’opera come in un bozzolo teso e rabbioso. Il giorno della distruzione è, secondo le stesse parole del regista, un atto di esorcismo contro il mostro del capitalismo, ed è forse questo il modo migliore per esperire il lavoro, una sorta di rituale audio-sonoro che sperimenta miscelando pandemia, Genriki, Olimpiadi, l’avvento di Maitreya, l’egoismo degli esseri umani e ancora una serie di altre pratiche folkloriche giapponesi. Certo, forse il tutto è solo abbozzato e ha un che di incompleto e di non completamente realizzato, ma probabilmente il film è in linea con una certa estetica punk e non va dimenticato che il progetto è stato girato di getto in soli otto giorni, quasi come una protesta verso tutto quello che stava succedendo in Giappone al tempo, giugno di quest’anno. Il giorno della distruzione è anche l’altra faccia della medaglia, o la continuazione, di Wolf’s Calling, un cortometraggio di 17 minuti realizzato dal regista giapponese lo scorso anno come reazione al suo arresto di cui si scriveva sopra.
Il lavoro comincia proprio con la protagonista che ritrova una scatola con al suo interno una vecchia pistola e da qui veniamo catapultati nel passato all’epoca dei samurai. L’azione si svolge nello stesso santuario che vediamo anche in Il giorno della distruzione e il finale si lega in qualche modo a questo stesso film.

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