Esilio: è il tema forse più frequente in certa parte di letteratura araba. Un esilio giovanile, obbligatorio o volontario poco importa, che prelude a una nuova vita. Che cela speranze, finalmente assecondate, dopo l’insoddisfazione patita nel paese d’origine. Con il suo Dispersi (Francesco Brioschi Editore, pp. 265, euro 18, nella traduzione Elisabetta Bartuli), Inaam Kachachi – irachena di Baghdad, classe 1952 – si differenzia da molti altri romanzieri arabi che raccontano il confino in età giovanile. O meglio, non si limita a quello.

LA PROTAGONISTA del romanzo, Wardiya Iskandar, ha ottant’anni, ha lavorato come ginecologa a Diwaniya (sud dell’Iraq) per tutta la vita ma, spaventata dalle condizioni sempre più incerte del proprio paese, decide di partire e tornare, come quando era ragazza, a Parigi.
La sua famiglia faceva parte della minoranza cristiana irachena; i suoi figli, sparpagliati per il mondo – Hinda, la maggiore, anche lei dottoressa, a Toronto con la famiglia; Barraq, ingegnere, ad Haiti in missione; Yasmine a Dubai, dove ha accettato un matrimonio combinato pur di lasciare casa – sono i frammenti di sé dispersi un po’ ovunque: «È come se un macellaio avesse afferrato la mannaia e deciso di disseminare in tutti quei luoghi le varie parti che compongono il suo corpo.

COME SE AVESSE BUTTATO il fegato in America settentrionale, scaraventato i polmoni nei Caraibi, lasciato andare alla deriva le vene sulle acque del Golfo. Quanto al cuore, è come se il macellaio avesse impugnato la sua lama più affilata, quella che usa per i lavori di precisione, lo avesse infilzato e facendo molta attenzione lo avesse sollevato sopra il Tigri e l’Eufrate».
Wardiya, che riesce a ottenere lo status di rifugiata e attende il visto per raggiungere Hinda in Canada, durante il suo soggiorno francese ripercorre le tappe dalla sua vita dedicata alla medicina: dagli studi all’Università voluti dai genitori, fino al primo incarico nella sperduta cittadina di Diwaniya, dove mette in piedi un ambulatorio di ginecologia conquistandosi la stima e la fiducia delle donne locali. Nel raccontare un esilio tardivo, Kachachi – che vive in Francia dal 1979, pochi anni prima dello scoppio del conflitto tra Iraq e Iran – pare provare un senso di colpa verso il proprio Paese, abbandonato all’ età di 27 anni. Mentre scorrono le pagine, sembra profilarsi un confronto con la sua protagonista, che l’autrice pare essere consapevole di aver perso: Wardiya, a differenza sua, è rimasta in patria fino alla vecchiaia, sfidando i pericoli, convivendo con l’instabilità politica del paese. Così come lei, anche la famiglia di Wardiya aveva fatto il proprio dovere per lo Stato.

L’AUTRICE tributa al patriottismo dei personaggi un ritratto toccante dei combattenti della guerra Iran-Iraq, ma soprattutto dei dispersi. È qui che il cerchio si chiude: gli esuli (Hinda, Barraq, Yasmine) sono solo i simboli di quella necessità di scappare, una necessità in cui l’autrice rivede se stessa. I dispersi, da cui l’omaggio del titolo, sono uomini e donne fuggiti da una realtà dura, straziante o solo semplicemente insoddisfacente. Il libro, che nel 2016 si è conquistato il «Prix de la littérature arabe», è un romanzo che parla della ricerca di sé esercitata in vecchiaia, non senza uno sguardo all’indietro. Per questo, l’intero romanzo scorre su due linee temporali, la prima – il presente – con l’arrivo in taxi all’Eliseo, l’accoglienza del cerimoniale e la delusione per quel «palazzo grigiastro, con l’affacciata su una via qualunque». La seconda – il passato – quando davanti all’ambulatorio dove lavorava, le «urla diventavano mormorii e strizzatine d’occhio. Poi fuori un improvviso schiamazzo». Una scrittura garbata, uno sguardo discreto sulle vite altrui che paiono restituire al testo la forma di una confessione personale, più che di un romanzo.
(L’autrice presenterà il suo libro a Roma in occasione di Più Libri Più Liberi, il 9 dicembre alle 14.30, sala Elettra)