Non è la prima volta che papa Francesco sceglie di utilizzare la propria funzione pastorale per denunciare le drammatiche contraddizioni dello status quo. Lo fa senza utilizzare perifrasi, ma sempre privilegiando il gesto alla parola e valorizzando al massimo la dimensione del simbolico. Anche in questo caso, la decisione di testimoniare il Vangelo alle porte dell’Europa (e quella successiva di accogliere a Roma tre famiglie di rifugiati) hanno assunto un significato «profetico» e fortemente politico.

Commentando l’accordo tra Unione europea e Turchia del 18 marzo, il papa aveva accostato l’umiliazione di Gesù a quella dei migranti, vittime della stessa indifferenza e della medesima iniquità delle autorità. Al Moria Refugee Camp ha voluto dare una forma concreta ai numerosi appelli sulla questione migratoria recandosi nel luogo più caldo del conflitto, nei nuovi «campi» dello «stato di emergenza» europeo.

Francesco ha messo in luce la vergogna di un’Unione che tenta di nascondere «la catastrofe umanitaria più grave dalla Seconda guerra mondiale». Nello stesso tempo ha inteso costruire sul terreno dell’accoglienza un fronte ecumenico con la Chiesa ortodossa. Il piano diplomatico, infine, non è rimasto scoperto, come dimostrano l’incontro con Tzipras e il tentativo di dare una sponda al presidente greco per uscire dalla stretta dell’Ue.

Dalla lettura della dichiarazione congiunta con il patriarca Bartolomeo e l’arcivescovo di Atene (un vero e proprio gesto di «ecumenismo politico»), emerge che la partita con le istituzioni il papa la intende giocare sull’estensione dell’asilo temporaneo e sulla concessione dello status di rifugiato. Come ha saputo dimostrare anche in altri contesti, dal viaggio in Israele alla missione a Cuba, la Santa Sede di Bergoglio sembra dunque oggi riscoprire le propria forza a trecentosessanta gradi: come istituzione diplomatica, intenzionata a ridiscutere gli accordi internazionali, e come istituzione pastorale, la cui carica profetica consiste nell’annunciare il futuro performandolo nel presente. A Lesbo il papa e i suoi «fratelli» si sono presentati come esperti di umanità per rimettere in questione, alla luce della tragedia in corso, i concetti di comunità, appartenenza e confine. Le chiese, del resto, sembrano oggi le sole agenzie culturali transazionali in grado di forzare i limiti di una politica miope e costretta nelle maglie del consenso elettorale e delle restrizioni economiche.

La posizione del pontefice, in particolare, insiste sull’idea che non ci sia identità europea che non si fondi, da un lato, su una cittadinanza universalmente garante dei diritti umani, e dall’altro sulla capacità di risolvere una guerra permanente che sfugge dagli schemi del conflitto tra stati nazionali. In una fase storica in cui il progetto culturale dell’Unione europea risulta drammaticamente ripiegare su se stesso, le parole e i gesti di questi uomini di fede rompono il muro dell’ipocrisia e provano a indicare una rotta.