I Vedovamazzei, il duo artistico e affettivo, formato da Stella Scala e Simeone Crispino, oggi tra i più interessanti artisti italiani, sono tornati a Roma con Early Works. Da Giotto a Hirst in mostra da Magazzino Gallery (fino al 31 gennaio 2022, testo critico di Giacinto di Pietrantonio). Una ennesima conferma della loro attitudine a reificare il senso delle cose in oggetto artistico, attraverso il loro mood irridente e deviante.

IN VIRTÙ della loro polimorfia, i Vedovamazzei, infatti, riescono sempre a sorprendere e depistare per l’alterata prospettiva da cui guardano il mondo e per l’intersezione mediale che, inopinatamente, producono fin dagli anni Novanta. Le loro opere, oramai iconiche, descrivono un immaginario iperbolico che filigrana la condizione esistenziale postmoderna, scavalcandone gli stereotipi e suggerendone le idiosincrasie, attraverso il filo del paradosso e l’ombra dello humour (e dell’autoironia) in un crossover che mette alla berlina il mondo delle immagini e dei falsi valori e i loro simulacri. E, fuori da schemi prestabiliti, forbiscono pratiche artistiche liquide, da cui entrano ed escono con una verve singolare, un medley che si ramifica attraverso pittura, scultura, disegno, acquerello, neon, video, installazione, performance, fotografia e l’imponderabile.

LA PERSONALE ROMANA, bella e inconfondibile, ondivaga nelle pieghe della mnemosyne collettiva e, più precisamente, collega la memoria visuale che immagazzina i capolavori della storia dell’arte all’immaginario collettivo, si distribuisce nella percezione individuale e si irradia attraverso la appropriazione personale, rendendo le icone fantasmatiche e inedite.
Per percorrere questa pista i Vedovamazzei, fin dal 1992, son partiti dalla creatività di alcuni bambini (dai 5 ai 12 anni) messi di fronte a capolavori acquisiti. Rispettando e valorizzandone il tratto, hanno ridisegnato le opere, differendone le dimensioni. Si va dal grande formato (4mt x 3mt) del ritratto di Rembrandt, a Giotto, alla Dama con liocorno di Raffaello, alla Marilyn di Andy Warhol, slittando alla Flag di David Hammons, passando per gli Spots di Damien Hirst ed altri.
L’operazione di riproducibilità dell’opera, in qualche modo, si incontra con ciò che Walter Benjamin definiva «immagine dialettica», un’immagine improvvisa, balenante, nella quale passato e futuro si illuminano a vicenda a partire dal presente.

È UNA ECCENTRICA visione della storia dell’arte, che si disconnette dall’ovvio e dall’ottuso, così come del resto, è la loro prolifica e discordante produzione.
Chi non ricorda la surreale After Love (2003-2020), la sbilenca casa (ispirata al slapstick di Buster Keaton One Week del 1920), ancora esposta nella piazza del Maxxi di Roma, una metafora dell’assurdo sulla dimensione dell’abitare? O la spaesante installazione Go Wherever You Want, Bring Me Whatever You Wish (2000) in cui un tir, che ha un tetto colmo di 28 tonnellate d’acqua del Po, trasporta una barchetta a remi, un piccolo molo e delle ninfee per evocare una porzione di quello che potrebbe essere il livello del fiume in caso di una grande alluvione a Torino? E che dire di My Weakness (2014) opera che immola il mito di Fausto Coppi nella pila di materassi affastellati (che ne ricordano i tanti ricoveri post-infortuni) sovrastati, in cima, dalla sua bicicletta Bianchi?
Ci sono poi la poetica Father Jacket (2010-2011), la balenante United Nothing (2015), la sghemba installazione Milonga (2005). E, ancora, i bellissimi dipinti Broken Paintings (2018-2919) che riattraversano, sberciandoli/sbeffandoli, i vari ritratti di Sid Vicious, Syd Barrett, Andy Warhol, David Foster Wallace, Alan Turing, Marx, Gilbert&George, Scum (Cloe Sevigny) e molti altri.
È un universo sbalorditivo il loro, in cui realtà oggettiva e il suo traslato si rincorrono, paradosso e scherno si contaminano, vacillamento ed inciampo si evocano a vicenda.