Nel tempo che impiegherete a leggere queste righe, diciamo cinque minuti, ognuna delle due sonde avrà percorso circa cinquemila chilometri. Sedici chilometri, più o meno, al secondo. All’inizio di luglio la sonda Voyager 1, partita il 20 agosto ’77 si trovava a ventitré miliardi di chilometri dal nostro piccolo sole, Voyager 2, lanciata pochi giorni dopo, il 5 settembre a diciannove miliardi, grosso modo. Ora un po’ più in là ancora. Viaggiano da 44 anni in allontanamento dal piccolo pianeta blu, dal 1977, quando, per dirla in musica e in politica, nella piccolissima Italia Cossiga mandava i blindati a Bologna contro il Movimento, e il vecchio rock si prendeva le spallate opposte e complementari del punk e della disco music.

SOLCHI
Cosa c’entrano gli spazi interstellari dove continuano a navigare i vetusti ma ancora efficienti manufatti dell’umanità con i pensieri, la storia, le specie che affollano il nostro pianeta di oggi, surriscaldato dall’insipienza del turbocapitalismo bulimico, marcato stretto da una pericolosa rinascita di pulsioni nazionalistiche degne degli orchi di Tolkien? Ma soprattutto, cosa c’entra la musica? C’entra tutto moltissimo. A partire dalla musica. Per raccontarlo ci voleva una grande penna che ne sapesse di musica, di astronomia, e avesse anche il fiuto (stellare, è il caso di dire) del curioso ad oltranza delle persone e della storia. Perché le grandi storie sono fatte così: come matriosche, ogni bel racconto ne contiene altri, notoriamente, e il divagare è bello, in quel grande mare. La grande storia che contiene tutte le altre è quella di un doppio disco d’oro da trenta centimetri chiuso in una custodia contenitore che ha anche una puntina e una testina da giradischi – quelli che sono tornati di moda oggi, quasi mezzo secolo dopo – nella speranza che qualcuno un giorno ne possa intuire la funzione. Il Golden Record viaggia negli spazi interstellari. Ed è simbolicamente e materialmente stipato di storie. Tracciate su solchi che contengono musica, immagini da decodificare, elenchi, elementi di base della nostra scienza. E qualche sciocchezza inevitabile, causa fretta e pressioni politiche inevitabili. Stipato di storie letteralmente, per quanto contiene, e simbolicamente, perché assemblare un «sampler» musicale (e non solo) della storia dell’umanità è impresa delle imprese. Ci voleva una grande penna dalla scrittura crepitante per raccontarlo, quella di Jonathan Scott. Un critico musicale inglese che sembra aver ereditato, nella scrittura trascinante, l’erudita arguzia di un Jonathan Coe quando scrive di musica, e la capacità di far deflagrare quanto si va a raccontare di Lester Bangs. Senza gli eccessi umorali dello stesso. Scott, collaboratore fisso di Record Collector, dunque uno che con i dischi ha una fissa non da poco, dalla sua base nel Sussex ha scritto libri e testi su Prince, su Cher, sulla psichedelia di San Francisco – che era già di per sé un bel viaggio cosmico, ma con i piedi sul vecchio pianeta – sui Nirvana, sui Pogues, su Isaac Newton. Le stelle vere, e quelle evocate da Paul Kantner dei Jefferson Airplane in Have You Seen the Stars Tonite.

INTELLETTUALI «RADICAL»
È da poco uscito in Italia per Jimenez, piccola editrice molto attenta a quanto si muove nel creativo sottobosco delle nicchie editoriali dedicate alla musica, il suo libro della vita, il testo sulla storia del Voyager Golden Record, una ricostruzione in oltre trecento pagine che si leggono d’un fiato di come, in poche settimane, una pattuglia stellare di giovani intellettuali «radical» nordamericani riuscirono a concepire, realizzare, far stampare e imbarcare (o meglio, a far fissare sulle pareti delle navicelle) un doppio disco d’oro che sarà ancora lì, a vagare fra le stelle alla ricerca di intelligenze aliene in grado di farsi un’idea di chi eravamo, quando il nostro sole sarà spento e la terra un relitto prima sferzato dal fuoco, poi da ghiacci senza più ombra di vita. Il tutto realizzato in un’epoca in cui chi doveva fare un lavoro bene, e di fretta, non aveva a disposizione computer, memorie artificiali, archivi consultabili con un click su una tastiera. Niente di digitale, solo inerte e fascinosa materia analogica, carta da lettere, macchine per scrivere, telefonate, incontri di persona, ricerca fisica di documentazioni.
Mixtape interstellare/La storia del Voyager Golden Record è il titolo che è stato dato al testo, tutto sommato non una scelta sbagliata: perché riesce a rammentarci quei tempi lontani dell’analogico, non quelli un po’ fighetti dell’oggi con gli ellepì a trentacinque euro, in cui se volevi conquistare la ragazza del cuore o acquisire qualche briciola di autorevolezza con gli amici ti dovevi dedicare anima e cuore a stipare le vecchie cassette analogiche di brani su brani, alla ricerca dell’antologia perfetta. Lo stesso Scott, con grande humour, racconta di essere stato uno di quei ragazzi. Però in originale il libro si intitolava The Vinyl Frontier/The Story of Nasa’s Interstellar Mixtape, dunque un suggestivo «La frontiera del vinile/La storia della compilation interstellare della Nasa».

CORSA CONTRO IL TEMPO
Qualcosa si è perso, qualcosa si è guadagnato, nel titolo italiano. Di sicuro, a pensarci, più passano gli anni più risulta impressionante che su due navicelle che ancora mandano segnali da una deriva spaziale quasi inimmaginabile ci sia un manufatto analogico da novanta minuti partito con una fiammata da Cape Canaveral con l’ardire visionario di rappresentare la cultura umana, e in particolare la musica del pianeta Terra. La squadra del Golden Record fu messa su da Carl Sagan, astronomo, divulgatore, scrittore di fantascienza. Si mise accanto una pattuglia spericolata di «condensatori del sapere» tra i quali c’erano l’astrofisico Frank Drake, l’artista Linda Salzman Sagan, la regista Ann Druyan, Alan Lomax, l’etnomusicologo cui dobbiamo la riscoperta delle note popolari del pianeta, e che avrebbe voluto monopolizzare ogni scelta. A loro il compito di realizzare un «Bignami della Terra» in musica, in parole di saluto (55 lingue), in immagini, con l’inquietante consapevolezza di star realizzando un «tatuaggio sonoro», dunque destinato ad essere istantanea di un momento specifico, proiettato però illusoriamente verso l’eternità.
Fu una corsa contro il tempo e contro la burocrazia, un azzardo, un’impresa defatigante e al contempo esaltante, per chi vi prese parte: e chi ancora c’è oggi è stato intervistato con intelligente acribia da Scott, che ha messo in luce storie su storie. A tutti livelli. Sulla musica scoprirete allora che c’è l’Allegro del secondo concerto brandeburghese di Bach, ma nulla di Verdi. Porzioni di Stravinsky e Beethoven, ma non Vivaldi o Ciakovski. Un canto navajo, ma non una tarantella. Una voce indiana con armonium e tabla, ma nulla a rappresentare il bel canto operistico. Johnny B Goode di Chuck Berry, ma non i Beatles. C’è il blues gospel di Blind Willie Johnson, ma non Elvis Presley. C’ è Louis Armstrong, ma non gli «interstellari» John Coltrane o Sun Ra. Furono scelte dibattute che scatenarono litigi, riappacificazioni, risate, scene isteriche. Con il mondo della politica che premeva per curiosare, e che alla fine riuscì a far includere sui dischi d’oro un esilarante e totalmente inutile elenco di nomi di oggi totalmente oscuri politici Usa. Nacquero nel gruppo di compilatori competenze, amori, carriere folgoranti, crisi esistenziali. Incredibilmente, per molti anni, fu impossibile ascoltare il contenuto del doppio Golden Record. Poi, sull’onda di una travolgente campagna di crowdfunding avviata da David Pescoviz e Tim Daly, fondatori della Ozama Records, rintracciate tutte le centinaia di persone cui si dovevano diritti, il doppio Golden Record basato sul master originale della Cbs diventò anche un (premiatissimo) oggetto terrestre disponibile. Non più un doppio ellepì d’oro, tatuaggio della terra nel ’77, realizzato in sei settimane, lanciato tra le stelle.