Alle soglie del Novecento, e precisamente nel luglio del 1899, Rainer Maria Rilke, sempre più soggiogato dal fascino esotico della letteratura russa, scriveva orgoglioso a Elena Voronina di essere ormai in grado di leggere Puskin nell’originale. Ma ancora più delle strofe dell’Evgenij Onegin ad attirarlo era il Demone di Michail Lermontov, «poema stupefacente, di illimitata dinamicità», capace di instillare nell’animo del lettore due sentimenti assolutamente contrastanti, eppure scaturiti in eguale misura dall’immedesimazione col demone ribelle: da una parte l’estasi del volo che si sprigiona al contatto «con le nuvole e il vento»; dall’altra l’attrazione esercitata su chi si libra in aria dal vuoto degli abissi. Dilaniato da queste forze opposte – scriveva Rilke – «finisci per lasciarti dietro il tuo stesso peso, e tutto ciò che ti inchioda alla terra, e non distingui più tra volo e caduta».

Individuando nell’«orgoglio sublime» dell’eroe di Lermontov un tratto «squisitamente russo», il poeta tedesco sembrava presagire quell’irresistibile proliferazione di demoni, sospesi tra umano, diabolico e angelico, che di lì a breve avrebbe invaso la letteratura russa (e sovietica). Una genealogia che risaliva a ben noti antecedenti ottocenteschi – non solo il «proscritto del cielo, il triste Demone» eternato da Lermontov, ma anche gli irriverenti diavoletti attinti da Gogol’ al folklore ucraino, senza dimenticare le incarnazioni più tetre e sulfuree dello spirito che, a detta di Goethe, «sempre nega», ossia i Demoni dell’omonimo romanzo dostoevskiano.

Una perfidia insufficiente
Significativo lo slittamento lessicale e insieme semantico che avviene in queste pagine: per Dostoevskij il demone non è più demon bensì bes; da daimon socratico, insopprimibile voce interiore, riflesso delle più insanabili contraddizioni umane, diventa forza impura, mera incarnazione del Maligno. E questa degradazione dell’elemento demoniaco, operata com’è ovvio dalla religione cristiana, si riflette anche in Melkij bes, il romanzo di Fedor Sologub datato 1905 che inaugura la demonologia russa novecentesca; qui il diavolo di turno è «melkij» ovvero «meschino» e veste i panni di uno squallido insegnante di provincia, intento a tiranneggiare la donna che teoricamente ama – ben diverso dunque dal tenebroso protagonista lermontoviano, che vorrebbe solo poter amare la principessa georgiana Tamara, e invece la uccide involontariamente con un bacio.

Dopo l’orgiastica féerie del Maestro e Margherita in cui il kieviano Bulgakov convocava a Mosca un gatto nero, un enigmatico professore esperto di magia nera e una donna pronta a scendere a patti col diavolo pur di ricongiungersi col suo amato, sembrava quantomeno improbabile che qualcuno tornasse ad ambientare tra i vicoli oscuri della capitale russa una storia di demoni. D’altronde, l’aveva ipotizzato anche Angelo Maria Ripellino, che nel 1968 in Letteratura come itinerario nel meraviglioso definì quello demoniaco nulla più di un «logoro motivo letterario», attualizzabile solo a condizione che – com’era successo al pittore simbolista Michail Vrubel’ o allo stesso Lermontov – da mero tema si trasformasse in ossessione esistenziale, sfociando nella patologia psichica.

Fino a che punto fosse infondata la diagnosi dello slavista palermitano lo dimostrerà di lì a poco più di una decade l’incantevole romanzo di Vladimir Orlov Danilov, Il violista, uscito in Unione Sovietica nel 1980 e ora proposto in italiano da Carbonio nella traduzione accurata di Daniela Liberti (pp. 464, e 17,50). Con tocco lieve e affilata ironia, l’autore riprende l’archetipo del demone proscritto, mutandolo però radicalmente di segno: Danilov non è stato bandito dal cielo in quanto angelo caduto, bensì dall’universo demoniaco dei Nove Livelli (evidente allusione ai nove cerchi dell’inferno dantesco) poiché non sufficientemente perfido.

A minare in lui la facoltà indispensabile a ogni demone che si rispetti, ovvero l’attitudine a «disprezzare qualunque cosa», è la sua natura semi-umana. Danilov è infatti il frutto degli amori illeciti di suo padre con una donna terrestre. Paracadutato sul nostro pianeta nel 1943 all’età di sette anni e cresciuto in un orfanotrofio sovietico, diventerà un «demone a contratto», incaricato di commettere «porcheriole del tipo disturbare le ricezioni radio, provocare divorzi o valanghe» e libero di passare a suo piacimento dalla natura umana a quella demoniaca, che gli riserva poteri soprannaturali, anzitutto quello «di vedere e comprendere tutto ciò che incontra sul suo cammino» e per di più nello spazio di un secondo. Tuttavia, il protagonista di Orlov non sembra apprezzare particolarmente il dono dell’onniscienza, che paragona anzi «al percorrere in fretta tutte le sale delle Ermitage in mezz’ora appena, confondendo tra di loro volti e colori». Molto più affascinanti gli appaiono i misteri insondabili della musica che tenta di penetrare con la sua viola. E il piacere tutto umano della scoperta graduale, faticosa e mai definitiva si rivelerà per lui preferibile a qualsiasi onniveggenza.

Ribaltando la credenza che individuava nelle creature diaboliche nient’altro che «angeli ribelli», l’autore – nato a Mosca nel 1934 e scomparso cinque anni fa – crea la figura speculare di un demone riottoso e «incapace», cui l’obbligo professionale di odiare l’umanità provoca solo spaventosi mal di pancia. Quella di Orlov è una demonologia alla rovescia (non a caso, leggendo al contrario il nome Danilov si ottiene Volinad, in omaggio al diavolo Voland del Maestro e Margherita), una rilettura di tutto l’immaginario infernale russo e non, dove abbondano gli spunti satirici.

Metafora dell’intellettuale sovietico
Nella vicenda del violista costretto a mille sotterfugi per dissimulare la propria natura, la critica ha letto una metafora della sorte dell’intellettuale sovietico, sempre impegnato a giocare mefistofelicamente a nascondino con le autorità. Ma, forse, nella storia d’amore tra Danilov e la terrestre Natasa, le cui tappe sono scandite dalla ripetizione di un passo tratto dalla Prima Lettera di S. Giovanni Apostolo, «Chi teme non è perfetto nell’amore», è possibile intravedere un superamento della figura diabolica del bes, ossia di colui che, secondo l’etimologia, «suscita terrore». Oltrepassata la soglia del timore, tanto ispirato quanto subito, Danilov indica la via a una umanità nuova, per la quale i fremiti della musica e dell’amore si fonderanno definitivamente.