Jonas Mekas Refuses to Fade è il titolo di un lungo profilo dedicato a Mekas dal «New York Times» due anni fa. Nella traduzione italiana di quel titolo – Jonas Mekas rifiuta di svanire – si perde la qualità cinematografica della parola fade: dissolvenza. Apprendere che Jonas è morto, è fare i conti con quella dissolvenza impossibile. Come si può, non solo scrivere, ma persino pensare alla traiettoria di Mekas come qualcosa che ha un inizio e una fine; come a uno schermo diventa nero poco a poco?

GRANDE INVENTORE del cinema underground americano, fondatore di alcune delle istituzioni che ne hanno più sostenuto la storia e l’evoluzione da oltre sessant’anni a questa parte (la rivista «Film Culture», la Film-Makers’ Cooperative, l’Anthology Film Archive), poeta, critico raffinato (fondamentali le sue recensioni sul «Village Voice»), musicista, diarista instancabile (sia attraverso le immagini che su carta), fotografo, archivista, performance artist di se stesso, insegnante e, specialmente negli ultimi dieci/quindici anni, abile (oltre che corteggiatissimo) surfista del trend in cui «il film» scivola nella galleria d’arte, Mekas incarna la stoffa stessa del cinema.

Nei suoi aspetti più puri, astratti, inafferrabili; e in quelli più terreni – la biografia, la Storia, la politica, il commercio, la memoria della guerra, il rapporto con i salotti culturali e l’alta società. Il suo non il percorso lineare di un autore, come per esempio un altro grandissimo della sua generazione – l’amico Stan Brakhage – ma un’avventura di curiosità instancabile, in continua dialettica con il mondo circostante, filtrata da un occhio insaziabile che funzionava quasi come un tritacarne. C’era, in Mekas, una dimensione centrifuga. Una forza che lo tenne per decenni al centro della vita culturale di New York (tra gli amici, oltre ai colleghi filmmakers, Salvador Dali, Jackie Kennedy, i Velvet Underground..), sempre curioso, sempre provocatorio.

Quella forza che interessò Warhol al punto da fargli provare il cinema (Mekas sarebbe stato il suo operatore di macchina in Empire), e che fino ad oggi ha continuato a raggruppare inevitabilmente intorno a lui filmmaker, curatori e critici anche molto giovani. Perché Jonas non ha mai avuto paura del confronto con il tempo. Anzi, lo cavalcava. A ottantatré ha messo su un sito internet, su cui ha iniziato anche a postare video e testi. È del 2007 il suo progetto di 365 film (uno per giorno..non tutti belli ma non importa) realizzati per la rete, dove ha continuato a condividere quello che girava fino all’ultimo. Anche dopo essersi trasferito a Brooklyn dall’East Village, fino a poco tempo fa, veniva regolarmente a Manhattan.

La sua macchina facilmente avvistabile intorno alla Seconda strada – per un salto al bistro francese favorito, sulla First Avenue, on all’Anthology Film Archive (che aprì insieme a Brakhage, Peter Kubelka e Jerome Hill, nel 1970), dove i suoi storici programmi di «Essential Cinema» continuano ad essere replicati e aggiornati dalle nuove leve.

«L’INIZIO» è nel 1922 a Semeniskiai, in Lituania. Dopo la permanenza in un campo di lavoro nazista e, finita la guerra, gli studi di filosofia a Mainz, arriva a New York nel 1949, insieme al fratello Adolfas, grazie a un’organizzazione per profughi. La destinazione prevista era Chicago, ma si fermano a Brooklyn. «Avevo ventisette anni e dovevo recuperare il tempo perduto nel campo di prigionia. Ho iniziato ad assorbire di tutto. Andavo al cinema ogni giorno. Ero così affamato di cultura e stimolo. E quando ho aperto gli occhi su quello che stavano facendo gli altri, iniziare a filmare è stato solo un piccolo passo», dirà al «Guardian».

Due mesi dopo lo sbarco, è l’acquisto della prima Bolex (ispirato da una proiezione di lavori di Maya Deren), con la quale inizia un diario per immagini che lo accompagnerà per tutta la vita. Tra i titoli più famosi della sua opera diaristica Walden (1969), Reminiscences of a Journey to Lithuania (1972) Lost Lost Lost (1976), As I Was Moving Ahead Occasionally I Saw Brief Glimpses of Beauty (2000), un film bellissimo in cui Mekas dichiara: «Non sono mai veramente riuscito a capire dove la mia vita inizia e finisce. A capirne il significato, le ragioni. Quando ho iniziato a mettere insieme tutti questi rulli di film, l’idea era di organizzarli cronologicamente. Ma poi ho rinunciato. E ho iniziato ad attaccarli insieme a caso, come erano disposti sullo scaffale. Perché non so dove ciascun pezzo appartiene realmente. Quindi (mi) affido al puro caso, al disordine».

MA ANCHE il disordine per Mekas era un principio attivo. E probabilmente non casuale. Oltre ai suoi film, ai suoi libri (più di venti), al grande archivio di copie contenute all’Anthology Film Archive l’eredità di Mekas è fondamentale anche in un altro senso: «È in gran parte grazie ai suoi sforzi di creare un’infrastruttura per il cinema di avanguardia che una pratica di cinema piccola, ed economicamente svantaggiata, ha trovato un posto nella storia della cultura e continua ad essere accessibile a un pubblico piccolo e dedicato», scrisse Amy Taubin su «Artforum» nel Maggio 2005.

«Cari amici. Jonas è mancato con tranquillità e in pace questa mattina. A casa, insieme alla sua famiglia. Sarà molto rimpianto ma la sua luce continua a brillare» diceva ieri la pagina Instagram dell’Anthology Film Archive. Jonas Mekas ha novantasei anni.