Non è facile raccontare nell’arco di un decennio, anzi di soli nove anni, quell’energico mutamento del linguaggio che subì l’arte italiana inseguendo gli anni Sessanta, quelli del boom ma anche del disincanto delle generazioni nate dopo la guerra, quelli in cui crebbero i sognatori dell’«immaginazione al potere», i rivoluzionari che scuotevano le fondamenta ingiuste di una società e anche i protagonisti del periodo stragista. Bisognerebbe avere a disposizione un palazzo di dieci piani, sapersi destreggiare fra molti nomi, fare il gioco delle inclusioni ed esclusioni. E una volta compiuta la selezione, ricominciare dalle opere, per creare quel dentro/fuori che stigmatizza l’aura di un’epoca. Luca Massimo Barbero, curatore della mostra Imagine. Nuove immagini nell’arte italiana 1960-1969, al Peggy Guggenheim di Venezia (visitabile fino al 19 settembre) non ci prova nemmeno ad essere esaustivo, a svolgere un compito da archivista.

gug
La sua rassegna non è una sistemazione dei linguaggi che si affacciavano sulla scena in quegli anni, né una storicizzazione gerarchica che affida ruoli leader ad alcuni a discapito di altri. Si avanza quindi per «salti», preferendo la poetica del frammento all’ansia di totalità. In fondo, anche la location è giusta per questo procedimento fuori canone, costituito di deliziosi assaggi: siamo in un palazzo nato dall’ossessione di una collezionista che ritraeva se stessa attraverso le proprie opere e passioni. E la collettiva di Barbero fa pensare a una collezione privata, da godersi in santa pace, tra i muri di casa, a riflettori spenti.

È proprio questa intuizione «intima» del curatore a evitare il naufragio di una mostra così ambiziosa nel titolo. Forse l’arte italiana degli anni Sessanta non ha una sua possibile narrazione: sono troppe le personalità che conquistano la ribalta – da Fabio Mauri a Pino Pascali, da Franco Angeli a Giosetta Fioroni, fino a Mario Schifano, Michelangelo Pistoletto, Giulio Paolini. Troppe le lacerazioni estreme che hanno attraversato la trama della contemporaneità.

Eppure qui al Guggenheim l’affabulazione segue un suo sentiero privilegiato, una grazia leggera, presentando alcune opere poco viste e «immaginando» luoghi di assoluto spaesamento, come l’ultima sala della rassegna che Luca Massimo Barbero ha descritto come «una specie di giardino d’inverno», che mette insieme le rose di Kounellis e quella bruciata di Pistoletto, realizzata su cartone ondulato, verniciata a spray e annerita dal fuoco. Una volte accantonate le aspirazioni enciclopediche, si può andare alla ricerca della matrice della «nuova immagine», evitando le recriminazioni e chiudendo gli occhi di fronte alle caselle rimaste vuote di artisti italiani non in mostra. Due le città cardine poste al centro della lente d’ingrandimento, diventate la fucina di giovani talenti: Roma e Torino (Milano era già stata indagata da una precedente mostra che ripercorreva la biografia di «Azimut/h», galleria e rivista). Due luoghi calamita che fecero germogliare linguaggi diversissimi tra loro, tutti attraversati da una radicalità assoluta.

Mostra Venezia