La storia, in termini gramsciani, è tutto quanto riguarda le donne e gli uomini che, unendosi in società, hanno tentato e tentano, attraverso la loro lotta e il loro lavoro, di migliorare le condizioni di vita nelle quali si trovano.

Di recente alla storia c’è stato chi ha voluto sostituire lo storytelling, ossia la narrazione, la quale, il più delle volte, è frutto non della conoscenza o dello studio approfondito dell’oggetto di cui si scrive quanto di un insieme di opinioni e di episodi fra loro messi insieme al fine di screditare l’evento che si sta prendendo in considerazione.

DA QUESTA DISTINZIONE prende le mosse Raul Mordenti nel suo ultimo lavoro La grande rimozione. Il ’68-77: frammenti di una storia impossibile (Bordeaux, pp. 199, euro 16; il libro verrà presentato lunedì 21 presso la libreria Todomodo, a Roma, ore 18). Mentre lo storytelling è usato dal potere, la storia appartiene agli oppressi. Meglio: è la storia stessa degli oppressi. Si potrebbe dire, riprendendo il Walter Benjamin citato da Mordenti, che è la «tradizione degli oppressi».

IL «DECENNIO ROSSO», come lo definisce l’autore, è riproposto a partire da un’esperienza personale collocata tuttavia all’interno di un’esperienza collettiva chiamata «movimento», un soggetto plurale che si muove a partire dal momento decisionale dell’assemblea dalla quale emerge «una notevole intelligenza politica», unita a chiarezza strategica e a una «insospettata sensibilità tattica».

Il decennio è affrontato dall’autore attraverso una storia che può sembrare impossibile soltanto a chi crede che tali storie non si siano svolte come vengono raccontate in questo libro ma come vengono narrate dal potere e dalle sue articolazioni mediatiche. Quella storia è invece avvenuta e il suo svolgersi è reso con uno stile immediato indifferente a una modalità «politicamente corretta» che spesso è usata per nascondere la verità.

IL LIBRO SI DIVIDE in cinque parti: le prime tre sono la storia, analizzata e non semplicemente narrata; le ultime due parti costituiscono la riflessione dell’autore. Alcune categorie usate sembrano proporre una definizione quasi in termini antropologici di ciò che fu il ’68: Mordenti scrive di «scarti» e di «senza valori», ossia di quegli «avanzi» (potremmo dire che si tratta di un ampliamento del concetto gramsciano di «subalterno»?) che la società capitalistica calpesta e che nel movimento hanno trovato lo spazio cercato. Il movimento, dando il rilievo necessario a questi soggetti, ha posto anche un’altra questione che, a ben vedere, è ancora oggi una delle questioni cruciali: che nesso c’è fra la rivoluzione e la felicità possibile?

IL MOMENTO, però, che rende il discorso di Mordenti di grande attualità è il discorso critico che l’autore svolge sullo stato presente dei costumi degli italiani. La corruzione del Paese – questa la tesi di Mordenti – conduce quasi inevitabilmente alla considerazione che tutti i partiti e esponenti politici sono uguali a tutti per cui affidarsi ad uno o ad un altro, per la funzione di dirigenza, non comporta alcuna differenza.

Esiste dunque un senso comune diffuso secondo il quale è perfettamente inutile impegnarsi per cambiare qualcosa perché a chiunque ci si affidi nulla cambierà mai.

Sembra quasi che dalle parole del Principe di Salina ad oggi non sia accaduto nulla o meglio si crede a chi ritiene di farci pensare che sia andata veramente così. Mordenti è invece convinto che, per quanto possa sembrare impossibile, c’è stato un movimento che ha lottato per cambiare le cose e che ora, a 50 anni di distanza, viene deriso e dileggiato anche da chi vi partecipò intensamente.

Dalla scuola al mondo del lavoro, c’è dunque bisogno di un nuovo movimento che operi per il superamento del senso comune corrente e che lavori «per una riforma intellettuale e morale» del paese.