Ci sono stati anni, in Italia, in cui un folletto riccio come Pino Pascali tagliava l’acqua del mare con delle forbici guidate da gesti danzanti e un bulgaro alto e allampanato come Christo impacchettava la statua del re davanti al Duomo di Milano, mentre quell’imballaggio si trasformava nel piedistallo delle rivendicazioni per i lavoratori in sciopero. Avrebbe di sicuro impacchettato pure le stelle lui, se solo avesse avuto la scala giusta per raggiungere il cielo e le sue costellazioni.

In quell’universo artistico che non rispettava nulla dei codici fino ad allora conosciuti, c’era anche Mario Merz, nella città operaista di Torino: voleva arare i campi dimenticando «i paesaggi dell’Ottocento» e procedendo per conto suo. Alla fine, come un pollicino lunare sparpaglierà i suoi igloo per i musei del pianeta, rifugio effimero e archetipico dello stare al mondo e di una umanità nomadica. Pistoletto, invece, camminava come un flâneur per le vie deserte con una scultura da passeggio, per riconquistare una comunione perduta con la città
Erano anni ludici e tragici, un’epoca in cui gli artisti dai Sixties disseminati di paglia, terra, fuoco e acqua, alla ricerca della radice e della radicalità di un fare che fuoriusciva dai confini e dalle norme dettate dal mercato passarono poi ai Seventies, quando il corpo divenne materia palpitante, il protagonista principale delle dissonanze sociali e private, luogo narrativo della politica che – come afferma Marina Abramovic – era in grado di predire il futuro.

Ma come si arrivò dai dodici cavalli di Jannis Kounellis esposti nell’Attico romano di Sargentini all’orgia sanguinolenta di un teatro della crudeltà messo in scena a Napoli dall’austriaco Hermann Nitsch, contestatissimo guru dell’azionismo viennese?

Quell’accidentato e utopico itinerario lo prova a ripercorrere, con rari materiali di repertorio e interviste ai protagonisti, il documentario La rivoluzione siamo noi. Arte in italia 1967-1977 (produzione e distribuzione Istituto Luce Cinecittà), nato da un’idea del critico e curatore Ludovico Pratesi e Ilaria Freccia, che ne firma anche la regia – sarà presentato in anteprima mondiale online al 38/mo Torino Film Festival il 25 novembre.

È costruito su un fil rouge che intreccia saldamente passato e presente e rende incandescente ogni momento, setacciando episodi che sembrano schegge di esperienze ormai archiviate ma che in realtà hanno cambiato il dna del fare arte per sempre. E anche molte esistenze, come ben spiegano Freccia e Pratesi. «Abbiamo trascorso giorni e giorni negli archivi, per cercare attimi di vita vissuta da riportare alla luce: uno sforzo che ha dato una serie di frutti insperati grazie all’enorme disponibilità di protagonisti e testimoni del tempo, che ci hanno aiutato a restituire una narrazione in diretta di quegli anni. Un’occasione straordinaria di scoprire frammenti di vita quotidiana… in una fusione tra arte e vita che ha reso quegli anni indimenticabili».

Il titolo è preso in prestito dall’opera del tedesco Beuys, quella fotografia in cui l’artista-sciamano si dirige verso lo spettatore per convincerlo a unirsi al rivolgimento del mondo a partire da sé. Fu anche il titolo della leggendaria e vulcanica sua prima mostra in Italia, presso la Modern Art Agency di Amelio, nel 1971.

Quattro dunque le città indagate per raccontare l’Italia creativa e controcorrente di allora – Torino, Roma, Milano e Napoli – con una ouverture dedicata alla Biennale di Venezia nell’anno – il 1968 – delle contestazioni, quando gli «ospiti espositori» rovesciarono le opere per negarle allo sguardo del potere e gli studenti sfondarono i cancelli dei Giardini per riappropriarsi degli spazi comuni e insieme dell’arte, che è di tutti. Ma i veri protagonisti del documentario non sono solo gli artisti di quell’epoca di sovversioni, sono anche i galleristi che li hanno accompagnati, assecondando idee e progetti eccentrici, offrendo carta bianca alle loro azioni di rottura, come testimonierà Sargentini. Erano alleati e complici in una relazione dove si mettevano in gioco loro stessi, senza assumere posizioni gerarchiche (fondate sul ricatto del denaro).

Ad aprire i giochi è Lia Rumma, grande dama dell’arte prima a Napoli (vivacissimo centro propulsivo del contemporaneo con lei e Marcello, Lucio Amelio, Pasquale Trisorio, Giuseppe Morra – nel 2008 la Fondazione Morra al rione Sanità ha inaugurato la sede del Museo Archivio/Laboratorio Hermann Nitsch, luogo di raccolta di materiali dell’azionista viennese), poi a Milano, unica gallerista e collezionista coraggiosa del Sud a destreggiarsi in quegli anni in un parterre abitato soprattutto da uomini. E, in effetti, le voci di donne sono rarefatte nel documentario, a riprova di un paese che andava a passi da gigante verso una veloce trasformazione, lasciando dietro di sé scie dell’«altra metà dell’avanguardia», come scrisse lucidamente Lea Vergine.

In scena vediamo apparire di sfuggita Giosetta Fioroni che manda baci, la coreografa americana Trisha Brown all’Attico con Simone Forti e poi, naturalmente, la serba Marina Abramovic. La seguiamo prima nella solitudine di quel corpo/martire dato in pasto all’aggressività degli spettatori in Rhythm 0, presso lo studio Morra a Napoli nel 1974: l’artista aveva posto sul tavolo alcuni oggetti per procurare piacere o dolore e il pubblico poteva fare con lei ciò che voleva; dopo sei ore di maltrattamenti – le conficcarono anche spine di rosa nello stomaco mentre lei rimaneva immobile co volto rigato di lacrime – il gallerista gettò dalla finestra la pistola carica per evitare la fine peggiore. Successivamente la ritroviamo con Ulay, in uno dei sodalizi più intensi che ci abbia regalato la storia della performance del Novecento.

Infine, sono diverse le anime che interpretano quel decennio così denso. Da quel viaggiatore e aedo dell’umanità dispersa che è Kounellis agli apotropaici corni di rinoceronte o creste di dinosauri di Pascali fino agli sdoppiamenti di Alighiero Boetti. «Il principio fondamentale è resistenza , la vita….- dceva – Sarebbe bello essere in due, uno tutto cosciente reale, l’altro tutto onirico, inconscio, che si tengono per mano ma senza confondersi mai, invece di trovarsi entrambi mostruosamente contenuti nel vaso angoscioso del soggetto».