È il film di lingua straniera candidato agli Oscar per il Cile e con la sua mobilissima interpretazione Paulina García ha conquistato l’Orso d’argento a Berlino. Il titolo Gloria non allude al film di Cassavetes, ma addirittura alla canzone italiana di Umberto Tozzi, che come la Pausini o prima ancora Nicola di Bari spopolavano al festival canoro di Viña del Mar. Una musica ballabile, una delle canzoni più vendute di tutti i tempi, che durante la festa finale del film, segna in qualche modo la ritrovata indipendenza della protagonista che si rende conto di poter vivere benissimo anche da sola. Ciò che rende interessante il film è l’amarezza accumulata che questa considerazione porta con sé, le feste, i preparativi, i locali, i tentativi, gli incontri.

Gloria è una donna della classe medio alta, divorziata da almeno dieci anni (il divorzio in Cile è stato introdotto nel 2004, prima era piuttosto consueto l’annullamento) con figli adulti, alla ricerca sempre delusa di un compagno: nella società cilena è del tutto anomalo essere single, tutti sono «pareja», procedono a coppie e, poiché ci si sposa presto, sono frequenti annullamenti e separazioni. La situazione di Gloria è quindi abbastanza comune e trovare l’uomo giusto non è per niente facile. Sergio Hernández interpreta il compagno provvisorio con cui sembra intrecciare un rapporto anche fisicamente appagante (tanto da meritare il codice R della distribuzione statunitense, vietata ai minori). In una società come quella cilena che ruota tutta attorno ai giovani, l’età avanzata della protagonista la mette tra parentesi, la cancella. Gli occhialoni che porta sono come un paravento tra sé e gli altri. Il regista, a cui la Mostra di Pesaro quest’anno ha dedicato una personale, ancora una volta tocca un punto nevralgico della sua società, non i nodi irrisolti della politica, ma quelli più invisibili della struttura e delle convenzioni sociali.

Sebastian Lelio (classe 1974) che l’anno precedente aveva realizzato il durissimo El año del tigre, non è detto che con questo film si mostri più malleabile. Il percorso disperato del protagonista (un impressionante Luis Dubó) uscito dalla prigione distrutta dal terremoto che prova a tornare verso casa e non trova più nulla se non macerie può dare un’idea della sua messa in scena dove tsunami e violenza sono componenti imprevedibili della società. E decostruiva un altro caposaldo della società cilena, la famiglia borghese con i suoi riti, in La Sacrada familia il suo film d’esordio (2005), ricostruita nuovamente in Navidad attorno alla casa di famiglia appena venduta.

Insomma la grazia non è la principale caratteristica di Lelio, piuttosto nel far emergere lati di cui per lo più la società cilena non è consapevole. Mentre la divisione in classi, il gap più lampante rispetto al mondo occidentale è un elemento che da tempo si mette in scena, il machismo è considerato ancora per lo più un elemento naturale, connaturato al genere umano, e l’amore in età matura un tabù che farà sorridere le cinquantenni rampanti occidentali.

Gloria è come un combattente, spesso messa al tappeto, cade e si rialza, non rinuncia ai suoi spazi di benessere, i bar, i locali, la sua auto dove ascoltare la musica preferita, una colonna sonora melodica. E se anche gli uomini che incontra la deludono, infine potrà farcela anche da sola. Crudele è poi il film nel mettere in scena periodi di crisi difficili da superare come il distacco dai figli, ancor più della separazione. Spietata anche la scena dove si ritrovano le due coppie per una cena assai beneducata (ex marito con la ragazza più giovane e bella per cui ha lasciato la moglie, Gloria con il nuovo, deludente accompagnatore), ma destinata a finire malamente per la discutibile qualità delle persone convenute. In qualche modo si sente nella messa in scena la differenza di età tra giovane cinema e soggetto legato alla maturità. Giovane il regista ed anche i produttori (è la produzione di Pablo Larrain, il magnifico regista di No, i giorni dell’arcobaleno che era il precedente candidato all’Oscar per il Cile).

Sono impressionanti anche le trasformazioni che Paulina Garcia riesce a mettere in atto nelle sue interpretazioni: quest’anno l’abbiamo vista alla Settimana della critica alla mostra di Venezia irriconoscibile protagonista attempata di Las analfabetas di Moisés Sepúlveda.