Ha un corpo minuto da bambina al quale infligge le peggiori torture. Lo tiene sospeso fra la vita e la morte giocando alla roulette russa con lo sguardo dell’osservatore che, a volte, è costretto a girare la testa preso da nausea improvvisa. Poi, in una manciata di minuti, quel folletto magro e tutto nervi si fa radice, pietra, vento, acqua e la sua nudità viene ricoperta di terra, finisce sotto vuoto in una specie di bara di vetro, calpestata dai passanti. Siamo dentro al Pac di Milano, dove si è inaugurata la personale dedicata all’artista guatemalteca Regina José Galindo: Estoy Viva, la mostra a cura di Diego Sileo e Eugenio Viola (chiusura l’8 giugno), rimanda fin dal titolo alla condizione delle donne guatemalteche. Rispondono così, infatti, a chi chiede loro come stanno…

Assistere a una mostra – tutta intera – dedicata soltanto alle performance, foto, sculture e disegni (che non sono altro che una sottolineatura delle sue ossessioni sacrificali) di Regina José Galindo è esperienza forte che necessita alcune pause durante il percorso per evitare angosciose full immersion troppo repentine. Le prove di resistenza della cubana Ana Mendieta – ma anche quelle della messicana Teresa Margolles – aleggiano in ogni stanza; Galindo, però, non si mescola o si scioglie nella natura per via di osmosi: mantiene, pur se labili, i confini, ricordando a ognuno la precarietà esistenziale di chi nel mondo non ha voce né potere. Brutalità, assassinii, dolore, stupri sono i fili con cui l’artista tesse il suo tappeto di storia recente. E lo fa direttamente sulla sua pelle, incidendola con scritte oppure intingendo i piedi in un catino pieno di sangue (nell’azione ¿Quién puede borrar las huellas? del 2003), dove ogni impronta rossa lasciata sulla strada vuole essere un «souvenir» della guerra civile. O, ancora, facendosi schiaffeggiare dalla terra fino al sotterramento.

Difficile scoraggiare il visitatore non avvertito ad addentrarsi con i figli minori nello spazio espositivo del Pac. Però chi accoglie all’entrata, ha l’arduo compito di provarci. Non sempre viene compresa la preoccupazione, dall’arte ci si aspetta spesso una dimensione contemplativa.

L’esordio dell’itinerario è già molto impegnativo. Nel video La Verdad – mai mostrato in Italia – si vede Regina che legge con una voce monotona e priva di ogni emozione le testimonianze di chi ha subìto torture e violenze da parte del regime durante la guerra civile. Un medico le anestetizza la bocca rendendo sempre più impervio quel suo parlare. In un’altra stanza, va in onda il filmato dove Galindo si fa ricostruire l’imene (a Venezia, il pubblico sveniva) oppure la incontriamo a bocca aperta mentre si fa estrarre i pezzetti d’oro con cui aveva precedentemente otturato i suoi denti: è l’oro del Guatemala, lo stesso che il suo popolo si è visto sottrarre per secoli dalle potenze coloniali.

Vincitrice di un Leone alla Biennale nel 2005 come giovane artista emergente, Regina è una nuova pioniera della body arte. Ha spinto fino all’indicibile la politicizzazione del corpo perché la realtà del suo paese è così estrema – il femminicidio è la principale causa di morte delle donne guatemalteche – da non lasciare spazio ad astrazioni né finzioni. Alla poesia, però, concede sempre uno spiraglio, che resta rigorosamente aperto.