Una macchina giuridica potenzialmente censoria e pensata per ricondurre all’ordine, cioè al controllo delle imprese, il caotico flusso di conoscenza della Rete. È questo il giudizio sul progetto di riforma del copyright in discussione al parlamento europeo.

A scendere in campo contro la riforma del copyright informatici, guru della network culture, mediattivisti. Il tutto quasi in sordina, quasi che i riflettori debbano rimanere spenti su quanto si sta tramando contro la pratica della condivisione dentro e fuori il cyberspazio.

Nel grande mutamento della globalizzazione la proprietà intellettuale continua così a svolgere un ruolo politico nella definizione dei rapporti di potere a livelo sociale e economico. E se negli anni Ottanta e Novanta il passaggio dal Gatt (le norme sul commercio internazionali incardinato nel sistema di relazioni statali) al Wto ha visto estendere il copyright, i brevetti, le tutele del marchio al software, alla conoscenza e al genoma dei viventi, la grande crisi del 2008 unita all’ascesa della superpotenza cinese, al travagliato declino dell’impero americano e alla grande trasformazione della Rete in organizzazione globale dei flussi di merci, capitale e conoscenza vede un rinnovato protagonismo dei soggetti politici sovranazionali (Unione europea) e degli organismi di governance regionale in Asia, Africa e America Latina.

Per quanto riguarda la proprietà intellettuale un ruolo protagonista lo svolgono gli Stati Uniti – una vera e propria macchina giuridica – e l’Unione europea, espressione di logiche divergenti. Significativi, ad esempio, sono gli interventi comunitari sulla privacy in concomitanza con l’esplosione dell’affaire di Cambridge Analytica. La posizione dell’Unione europea rispetto le responsabilità, ad esempio, di Facebook nella cessione dei dati personali successivamente usati per condizionare elezioni politiche nazionali e referendum nazionali (la Brexit) è stata netta. O Facebook modificava il suo comportamenti o scattavano dure sanzioni europee nei confronti della società di Mark Zuckeberg.

Per quanto riguarda lo spostamento dei dati, l’Unione europea è stata inoltre uno degli scogli più importanti al progetto Ttip, archiviato per il momento con l’elezione di Donald Trump alla Casa Bianca. Sulla responsabilità dei server nella tutela del diritto d’autore è però in corso nel parlamento europeo la discussione del «progetto di legge» che vede alcuni norme – gli articoli 11 e 13 – fortemente criticate.

A aprire le danze è stata una lettera aperta inviata all’Unione europea da parte di ricercatori, ingegneri, imprenditori 2.0 nella quale è criticato l’articolo 13 – rinominato upload filter – che regola il ruolo dei gestori dei server. Per i relatori del documento europeo, dovrebbe essere stilato e continuamente aggiornato un data base di materiali coperti da diritto d’autore. I gestori dovrebbero intervenire se qualcuno carica o scarica su piattaforme digitali materiale video o audio se sottoposto a copyright. Secondo i firmatari della lettera, questo trasformerebbe la Rete habitat dell’innovazione in un deserto.
Tra i firmatari della lettera ci sono personalità del calibro di Tim Berners-Lee (l’«inventore» del web), Vint Cerf (l’informatico che ha contribuito a sviluppare i protocolli di trasmissione Tcp/ip) ,Jimmy Wales (uno dei fondatori di Wikipedia) e Brester Kahle, fondatore dell’Internet Archive. Figure cioè che possono essere considerati veri e propri guru della network culture.

L’altro articolo messo sotto accusa è l’undicesimo, chiamato link tax, che prevede, ad esempio, il pagamento ai padroni dei contenuti ogni volta si usano pezzi di articoli, materiali informativi presenti in rete. È questa una norma che prende di mira principalmente i motori di ricerca che propongono articoli o video nelle loro ricerca. Per l’Unione europea questo garantirebbe il rispetto del copyright, che come è noto è prerogativa delle media company.

La discussione europea continuerà il suo corso, ma è evidente che alcuni riflettori sono stati accesi. E non è detto che la proprietà intellettuale possa continuare ad essere impunemente usata per definire i rapporti di potere a favore delle imprese.