«Prima di ogni ragionamento ulteriore bisogna partire dal presupposto che la tecnologia digitale in tutte le sue forme sta avendo un impatto rivoluzionario pari, forse superiore, a quello che ebbe l’elettricità. E non sempre c’è un’adeguata consapevolezza di ciò che sta accadendo», osserva Juan Carlos De Martin, professore del Politecnico di Torino, dove dirige il Centro Nexa. «Basti vedere – continua poi – la scarsa presenza di questi temi nel dibattito pubblico, compresa questa campagna elettorale. Eppure l’Agenda digitale è uno dei temi al centro delle politiche della Commissione europea».

De Martin, da tempo sostenitore e animatore di Creative Common Italia, è uno dei massimi esperti italiani del rapporto tra Rete e società. Acquisisce così rilevanza il suo punto di vista, in vista del voto, sulla «politica digitale» dell’Unione Europea, anche alla luce della recente sentenza contro Google della Corte di giustizia Ue del Lussemburgo (che ha dato ragione a un privato cittadino, accogliendo la sua richiesta di non comparire più in pagine con informazioni e link che lo avessero riguardato).

Qual è la sua valutazione del lavoro della Commissione Barroso sul tema?

In quell’agenda erano comprese cento azioni concrete, dalla banda larga allo e-government, sulle quali dovevano agire sia la Ue sia gli stati membri. In Italia partivamo da molto indietro, ed è già un risultato che si sia cominciato a parlarne, ma sui cambiamenti concreti c’è ancora molto da fare. Si prenda ad esempio la banda larga: si è discusso molto di portare internet ovunque e aumentarne la velocità (che da noi è una delle più basse d’Europa), ma alla fine non è ancora successo nulla di significativo. E questo è il primo dei tre divari strutturali che vanno superati per permettere a tutti l’accesso alla rete.

Quali sono gli altri due divari strutturali che lei rileva?

Il primo è quello economico, di cui non parla quasi nessuno: ci sono milioni di persone che non possono permettersi un computer e 30 euro al mese di abbonamento. Ricordiamoci l’attivismo del governo Berlusconi nel sussidiare l’acquisto dei decoder al momento dell’arrivo del digitale terrestre: per l’accesso a internet, invece, non si fa nulla. E poi il divario culturale: esistono persone che non accedono alla rete perché non ne capiscono l’utilità o perché temono di non esserne all’altezza.

Prima ancora della scarsa cultura digitale, conta molto l’analfabetismo di ritorno di tipo «tradizionale»: quasi due terzi di italiani non hanno le capacità cognitive per capire un grafico o un articolo di giornale. Il piano della cultura digitale in senso proprio subentra dopo: negli adulti anziani è carente – perché da noi manca l’educazione continua – e ai ragazzi bisogna fare capire meglio cosa significhi la rete, per massimizzarne le potenzialità educative e per evitare problemi come il cyber bullismo ma non solo. Naturalmente divario economico e culturale si intrecciano: le classi privilegiate tendono ad avere gli strumenti per utilizzare al meglio la Rete, mentre persone culturalmente e socialmente svantaggiate quando hanno il computer in casa tendono ad utilizzarlo passivamente, come un televisore.

Torniamo all’Ue. Pochi giorni fa c’è stata una sentenza della Corte di giustizia che ha accolto il ricorso di un cittadino spagnolo condannando Google a cancellare il link verso una pagina web che conteneva informazioni che lo riguardavano: che valutazione ne dà?

Siamo all’inizio di un percorso che ci terrà impegnati per anni: non sarà facile trovare il giusto bilanciamento tra il diritto di tutti alla libertà di espressione, e in generale alla conoscenza, con quello degli individui di controllare almeno in parte il modo in cui la loro persona elettronica viene ricostruita da terzi. La questione è come fare a tutelare il singolo senza né comprimere in maniera indebita i diritti degli altri né provocare effetti indesiderati su tutto il mondo digitale. Ma voglio evidenziare anche un’altra importante sentenza della stessa Corte.

È la sentenza dello scorso 8 aprile con la quale ha abrogato la direttiva che imponeva agli operatori di trattenere i metadati delle telefonate e della navigazione (la cosiddetta data retention). Era il ribaltamento di un principio-cardine della civiltà giuridica moderna, e cioè la presunzione d’innocenza, che diventava presunzione di colpevolezza: un effetto nefasto della mentalità

post-11 settembre.

A proposito di protezione dei dati, qual è il livello di garanzia dato dalle norme europee attuali?

Per risponderle devo citare l’accordo «Safe Harbor» fra Usa e Ue. Tale intesa – sottoposta a periodica revisione – ha concesso una libertà d’azione alle aziende americane più ampia di quelle delle imprese europee, che si è anche tradotta in un’asimmetria competitiva. Mentre le imprese europee si lamentano di poter fare pochissimo con i dati di cui dispongono, perché le regole sulla privacy sono più stringenti, Google o Facebook possono fare, purtroppo, molto di più.

Pochi giorni fa negli Stati uniti la Federal Communication Committee ha approvato un nuovo regolamento che rischia di mettere in discussione il principio della «neutralità della Rete» in base al quale chi usa internet per comunicare ha gli stessi diritti di chi lo fa per business e non si possono creare «corsie privilegiate» per le grandi corporation. Nell’Ue come si affronta questo tema?

Si cominciò a parlarne anni fa con il Telecoms package proposto dalla commissaria Viviane Reding. Più di recente, la commissaria Neelie Kroes ha proposto il suo pacchetto di misure Connected Continent, che il parlamento europeo ha approvato lo scorso 3 aprile dopo averlo modificato e, a mio avviso, molto migliorato sullo specifico punto della tutela della neutralità della rete. Ma l’ultima parola non è stata ancora detta: dopo le elezioni sarà discusso dal Consiglio, sotto presidenza italiana, e non sappiamo se gli stati membri accetteranno questa ottima soluzione oppure annacqueranno il testo per favorire le grandi imprese di telecomunicazione.

L’iter di questa normativa ha mostrato come la commissaria Kroes (liberale) sia stata più sensibile agli interessi delle grandi imprese di telecomunicazioni che a quelli degli utenti e dei fornitori dei servizi online: Dobbiamo alla battaglia di deputati come la svedese Amelia Andersdotter (del Partito pirata, affiliata al gruppo dei Verdi) e alle associazioni della società civile come Edri (European Digital Rights) i miglioramenti nel testo.